Cultura, Tradizione, educazione: per un progetto pastorale

+ Mons. Luigi Negri
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Da questa tre giorni, che mi è sembrata entusiasmante, e dall’assemblea, che è stata sincera e in alcuni punti molto intelligente, desumo la questione centrale, cioè l’identità del popolo, il soggetto della Chiesa e della storia. Prendo spunto anche dal vissuto di quest’anno, dai momenti che abbiamo vissuto insieme, dalle circostanze del quotidiano che sono la grande lezione di Dio nella nostra vita, dal Magistero di Benedetto XVI, dal discorso di Verona, dall’avvenimento di Loreto, che abbiamo saputo portare come diocesi grazie all’accoglienza straordinaria che le nostre famiglie sono state capaci di dare. Traggo le mie considerazioni con uno spirito di profonda positività. Se paragono questo tempo ai due anni passati colgo un salto qualitativo nel senso non dell’entusiasmo acritico, ma dell’entusiasmo critico della fede, che è, secondo Origene, la maturità della coscienza cristiana. Infatti la critica non sta nel mettere in crisi l’entusiasmo e l’entusiasmo non sta senza crisi, cioè senza capacità di giudizio.
I. La rinascita del popolo cristiano
Una prima osservazione fondamentale, che deriva dalla maggior parte degli interventi fatti, è che si formi e riformi continuamente il popolo cristiano. Questo popolo deve poter vivere quel dinamismo verso la maturazione della sua identità che noi esprimiamo con la parola cultura, ma più sinteticamente esprimiamo con la parola vocazione. Questo dà alla comunità la responsabilità educativa. Educare un popolo vuol dire portare il popolo e ogni persona alla chiarezza della cultura, cioè alla coscienza vera della propria identità, che significa l’individuazione del modo specifico con cui ognuno può contribuire alla missione cristiana attraverso la propria vocazione. Il fatto che un popolo si formi è un miracolo, è il miracolo della “trasmissione della fede da cuore a cuore”, come dice il Concilio, è il miracolo dell’incontro fra la grazia e la libertà. Ricordo la sottolineatura potente alla grazia, in senso culturale. Un cristianesimo senza grazia non è cristianesimo. Certamente un cristianesimo senza libertà non è cristianesimo La spaccatura nella modernità è avvenuta lì. Il protestantesimo ha esclusivizzato la grazia, ha reso l’uomo in balia della grazia, che non è più grazia di Cristo, ma è predestinazione divina. Il laicismo ha esclusivizzato la libertà intesa come espressione della propria individualità. Il fatto che nasca un popolo è una grazia da coltivare come il sapiente agricoltore, che ha fatto da contenuto a tante parabole del Signore Gesù Cristo. “Con grande gioia ho visto che attorno a me si formava un popolo” dice l’ingresso della Messa del Sacro Cuore di Gesù nel rito Ambrosiano. La pastorale è che il popolo viva e venga educato. Questo è più importante delle idee che abbiamo. Le idee sono vere se servono alla nascita del popolo. C’è stato nella storia della Chiesa recente un attaccamento alle proprie opinioni che ha finito per essere, senza volere, l’obiettivo pastorale. Il prete progressista amava più la progressività delle sue idee che l’esistenza del popolo. Il prete tradizionalista ha amato più la sua idea tradizionalista che l’esistenza del popolo. Io non ho bisogno né di preti tradizionalisti né di preti progressisti, ho bisogno di preti che vivano la loro vocazione per la nascita e la rigenerazione continua del popolo. Il popolo non solo deve nascere, ma deve essere continuamente rigenerato: questa è l’educazione. Il popolo deve essere rigenerato anche moralmente attraverso la Confessione, che spesso non viene fatta, perché noi non siamo più tanto capaci di viverla come il Signore Gesù ce l’ha affidata. Oscilliamo fra una psicoanalisi fai da te e un giudizio che sembra anticipare il giudizio di Dio. Teologicamente il giudizio consiste nel perdono. Se uno confessa il peccato, sa che ha fatto il male. Il giudizio della Chiesa è il giudizio di Dio: “Va’ e non peccare più”.
Esiste un forte desiderio di essere popolo cristiano, un forte desiderio di essere Chiesa, non di essere utenti della Chiesa, ma di essere un popolo che mangia e beve, veglia e dorme, vive e muore per il Signore. È un desiderio che anima alcuni genitori dei ragazzi che fanno la Cresima, alcune coppie che si preparano al Matrimonio, quegli insegnanti che dentro la scuola sono falcidiati dalla mentalità laicista e massonica, le giovani coppie che nell’impatto con la società sono messe fortemente in scacco dal punto di vista culturale e morale. Noi dobbiamo farci carico di questi desideri. Questa è la pastorale. Il desiderio nasce perché è provocato, il desiderio nasce come esito di una evangelizzazione. In alcuni è un desiderio che è già lì in superficie, in altri è più profondo. L’annuncio scopre i desideri segreti del cuore. L’evangelizzazione ha un punto privilegiato che è la celebrazione domenicale. Gramsci ci invidiava le Messe e le catechesi, e ne ha create con le case del popolo e con la formazione intellettuale del partito comunista, che è stato per un certo tempo l’altra chiesa. Noi dobbiamo portare fino alla vocazione questo desiderio che c’è, perché in qualche modo è provocato dal nostro annunzio e dalla nostra testimonianza. Il fatto che il popolo ritrovi la sua vocazione è la condizione perché ci siano tutte le vocazioni, anche quelle sacerdotali. Se i sacerdoti nascono fuori da un contesto di popolo si preparano alla burocratizzazione. Questo è il grosso limite sulla selezione dei candidati al sacerdozio che avviene nei nostri seminari. Alcuni giovani arrivano in seminario come burocrati del sacro, perché normalmente non sono espressione di una comunità che li manda. Spero che l’educazione seminaristica metta in crisi questa tendenziale burocratizzazione, altrimenti i cinque anni di seminario li preparerebbero ad essere dei burocrati del sacro, cioè la cosa più lontana da quello che il popolo si aspetta e desidera.
Quindi la prima questione fondamentale è il nostro vivere per la formazione di un popolo cristiano che è il soggetto del presente, ma è anche il grande soggetto del passato. Il popolo sarà tanto più il soggetto dell’oggi quanto più sarà aiutato da noi a prendere coscienza che è portato fin qui da una tradizione, che gli è stata raccontata e ha formato la sua mens e il suo cuore. Ho voluto la mostra Arte per mare perché il nostro popolo fosse facilitato a recuperare la tradizione. Infatti le opere, che si vedono lì, fanno recuperare la tradizione più di tutti i trattati di teologia o tutti gli articoli di giornali.
II. La sacramentalità della Chiesa
La seconda osservazione centra la questione sia del presbitero, come autenticità della vita personale, che del presbiterio, come comunione dei preti attorno al vescovo. Certamente si diventa generatori di desiderio di essere popolo e educatori di questo desiderio fino alla maturità, se si è totalmente dediti a Cristo e alla Chiesa. Il nostro servizio non è a tempo, non è una presidenza della comunità temporanea. Dedicarsi totalmente a Cristo significa dedicare intelligenza, cuore, tempo, affettività. Per questo è necessario il celibato così come è stato ripresentato da Benedetto XVI nella Caritatis Sacramentum, come “il vanto lieto e doloroso” del nostro sacerdozio. Il celibato ci assicura non in modo meccanico, ma in modo drammatico, che stiamo dando tutto a Cristo, anche la dimensione a cui il cuore dell’uomo è istintivamente legato come possessività: l’altro. La totalità della dedizione a Cristo passa attraverso la totalità della memoria di Lui che è la preghiera definita da S. Agostino come “sistematica elevazione della mente a Dio”. La totalità dell’immanenza alla persona di Cristo, capo di un popolo, è il servizio totale alla sua Chiesa nel punto in cui la nostra vocazione presbiterale è stata riconosciuta, verificata e custodita, cioè il presbiterio attorno al vescovo. L’appartenenza totale a Cristo si esprime come un’appartenenza totale al presbiterio nell’obbedienza al vescovo. Ha un valore sacramentale il popolo. Ha un valore sacramentale il vescovo. Ha un valore sacramentale il presbiterio. “Aderite al vescovo come a Cristo” diceva S.Ignazio di Antiochia. La sacramentalità di una presenza fa riaccadere il mistero dell’incarnazione che è unità nella distinzione. Come il corpo storico di Gesù di Nazaret era tanto unito al Verbo che non si poteva riconoscere il Verbo se non aderendo a Gesù di Nazaret, così non si aderisce alla Chiesa se non facendo Corpo con la storicità e con la carnalità della Chiesa oggi e quindi con la storicità e con la carnalità del vescovo. La Chiesa e il vescovo non devono essere né sacralizzati, né relativizzati. Non c’è Cristo nella Chiesa scavalcando la storicità della Chiesa del XXI secolo. È vero che si arriva al Mistero supportando la storicità, non prendendo le distanze, non criticando dall’esterno la storicità, neanche pretendendo di deificarla. Il Mistero è nel vivere il dramma di aderire a Cristo nel vescovo, di amare Cristo nella Chiesa tenendo vivi i due fattori di questa straordinaria dialettica. Il Mistero è in Gesù di Nazaret morto e risorto, nel Risorto che porta i segni della crocifissione. Il presbitero è tutto di Cristo se è tutto della Chiesa, se vive questa dipendenza drammatica e liberissima. Questa dipendenza è drammatica perché mette in gioco tutta la libertà. Faremo nascere un popolo a condizione della totalità della nostra appartenenza a Cristo e alla Chiesa nel rapporto con il vescovo, che rende presente Cristo. Dicevo a un Capitolo Generale di un Ordine giovanissimo che l’appartenenza non elimina la criticità, anzi la fa vivere come un contributo. La criticità è rigenerata da un’appartenenza vera. Siamo così aiutati ad essere sempre più liberi. Scrivete nei vostri studi questa frase di Giovanni Paolo II: “Scelti nella Chiesa per stare di fronte alla Chiesa”. Voi siete stati scelti per essere punti di riferimento vivi di un popolo che cammina.
III. Dall’unità affettiva all’unità effettiva
In questi due anni mi sono interrogato su come io possa servire questa totalità della vostra adesione a Cristo attraverso la mediazione dell’obbedienza a me. Credo che in questa Chiesa particolare siamo nella stessa situazione che Giovanni Paolo II evidenziò parlando a una Conferenza Episcopale, cioè noi siamo molto uniti affettivamente ma non siamo ancora uniti effettivamente. Dobbiamo passare dall’entusiasmo affettivo al fare vostre le indicazioni che io vi do. La nostra unione è intensa affettivamente da tutte due le parti. Realmente vi voglio bene perché voglio bene a Cristo e come voglio bene a Cristo. Questo non spazza via il sentimento, ma lo radica. Invece sul piano della effettività c’è veramente da fare un passo. Indico in questi tre punti il passaggio dall’unità affettiva all’unità effettiva.
Dobbiamo vivere la Chiesa particolare nel respiro della Chiesa universale. Non possiamo vivere la Chiesa particolare come se fosse autocefala. In questa direzione vanno i miei richiami insistenti al Magistero del Papa. Il particolare senza l’universale si chiude. L’universale senza il particolare diventa una struttura burocratica. Il Concilio ha detto che “la Chiesa universale nasce e vive nelle Chiese particolari”. Le Chiese particolari sono tali perché affermano come fattore genetico l’unità. Bisogna andare oltre un certo provincialismo che ci fa vivere addirittura la parrocchia come comunità autocefala. La Chiesa particolare non è una federazione di parrocchie. La Chiesa universale non è una federazione di chiese. La Chiesa è un Mistero di unità nella particolarità.
Dobbiamo vivere il rapporto con il vescovo come la salvaguardia suprema di questo universale e come la sollecitazione a vivere con vera libertà il nostro compito senza attaccamenti indebiti. La curia non è una controparte sindacale, è un punto dove si coagula la preoccupazione pastorale di una Chiesa. Il fatto di non sentire adeguata una scelta è lo spunto di un dialogo. Deve diventare operativo il concetto di sacramentalità della Chiesa in tutte le sue articolazioni e certamente prima fra tutte nel vescovo in unione con il Papa. È una dipendenza libera, che arricchisce, che fa crescere gli uni e gli altri, come diceva San Paolo. Vivendo veramente nella dipendenza sacramentale ci troveremo stupiti dalla ricchezza che sperimenteremo. In questo senso dobbiamo tutti fare il sacrificio di immedesimarci nelle ragioni di un episcopato. Il mio episcopato ha delle ragioni, indica un percorso ideale, metodologico, e pastorale. Bisogna far corpo su questo punto per poterlo evolvere ed eventualmente cambiare. Non si può separare la persona dalle sue idee. Non potete volermi bene e non voler bene alle mie idee. Questo non significa condividere tutto, ma immedesimarsi. Dalla immedesimazione nasce il dialogo. Dio mi ha dato la grazia di poter dire le ragioni della fede e di indicarle. Su tutto il resto non sono niente. Lavoriamo su questo. La vostra opinione non vale la mia, altrimenti non è più la Chiesa Cattolica. La Chiesa Cattolica parte da un’ipotesi. L’ipotesi di una Chiesa è data dal Vescovo. Nel cammino posso cambiare totalmente le mie idee grazie al vostro aiuto. Non dovete fare ciò che vi pare, oppure condividere acriticamente. Non ho bisogno di un entusiasmo acritico, ma di un entusiasmo critico Questo è il salto. È un’opera che possiamo realizzare insieme. Oggi dopo due anni possiamo parlare di questo salto, perché serve tempo, conoscenza, confidenza, amore, compagnia, l’aver trepidato della salute dell’uno o dell’altro, il sacrificio di pensare se quello che stavo decidendo per l’uno o per l’altro era il meglio per lui e per la comunità, tutto questo è stato utile per arrivare ad oggi.
Il passaggio dall’unità affettiva all’unità effettiva darebbe al nostro rapporto quella paternità che responsabilizza. L’autoritarismo non responsabilizza, fa degli uomini così subalterni da renderli aggressivi. Non si responsabilizza neanche lasciando allo sbando. Noi preti non possiamo fare questo errore, soprattutto fra noi. Amo quando voi create con totale responsabilità e con totale rischio. Amerei conoscere di più quello che create per arricchirmi e per poterlo riproporre. La mia funzione è anche quella di indicare come esempio le opere belle che fate. Questo mi pare il passo che la Provvidenza chiede a me e a voi. L’operatività esige una responsabilità più articolata, non potendo il vescovo essere presente dappertutto. Anche questa mediazione non è autocefala, ha una verifica costante almeno nei momenti di incontro. I momenti di incontro mensili del presbiterio, quello di vicariato, il ritiro e l’aggiornamento del clero, utilizzati nel senso di una reale partecipazione personale, hanno una potenza di richiamo ideale e di condivisione forte. Si tratta di utilizzare bene gli strumenti che abbiamo fra le mani. Dobbiamo vivere con spirito di fraternità i momenti istituzionali. Oggettivamente possiamo costruire fraternità grazie ai momenti che abbiamo e al numero di preti che siamo. Spero di poter dialogare ancora con voi riguardo al passaggio da un’unità affettiva a un’unità affettiva che implichi una dipendenza reale come cammino verso la maturità.
Chi fa esperienza di Chiesa con noi deve essere in grado di essere Chiesa nel mondo. La missione nel mondo del lavoro, nel paese, nella cultura. Noi non saremo tranquilli se sono tanti, ma se sono veri. La secolarizzazione non si è vinta con i numeri e non si è persa perché eravamo pochi. Dobbiamo arrivare a creare almeno l’avanguardia di un popolo maturo che possa tirarsi dietro tutto il popolo come e quando riuscirà. Dobbiamo puntare a una qualità che poi diventerà numericamente significativa. Non dobbiamo idolatrare il numero, ma neanche idolatrare di essere una minoranza, come è stato fatto in certi momenti del passato ecclesiastico. Dobbiamo essere contenti di essere il popolo di Dio, che può apparire talora un piccolo gregge, come dice il Concilio, “mandato a tutti gli uomini come segno certo di unità, di verità, di pace”. Abbiamo davanti il compito di formare un popolo missionario.