Amor di patria

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«In quel tempo gravi tensioni turbavano la convivenza civile. Massimo (vescovo di Torino dal 398), in questo contesto, riuscì a coagulare il popolo cristiano attorno alla sua persona di pastore e di maestro. La città era minacciata da gruppi sparsi di barbari che, entrati dai valichi orientali, si spingevano fino alle Alpi occidentali. Per questo Torino era stabilmente presidiata da guarnigioni militari, e diventava, nei momenti critici, il rifugio delle popolazioni in fuga dalle campagne e dai centri urbani sguarniti di protezione. Gli interventi di Massimo, di fronte a questa situazione, testimoniano l’impegno di reagire al degrado civile dei destinatari dei Sermoni, pare che la predicazione di Massimo - per superare il rischio della genericità - si rivolgesse in modo specifico a un nucleo selezionato della comunità cristiana di Torino, costituito da ricchi proprietari terrieri, che avevano i loro possedimenti nella campagna torinese e la casa in città. Fu lucida scelta pastorale del Vescovo, che intravide in questo tipo di predicazione la via più efficace per mantenere e rinsaldare il proprio legame con il popolo… Massimo, nel crollo delle autorità civili dell’Impero romano, si sentiva pienamente autorizzato ad esercitare in tale senso un vero e proprio potere di controllo sulla città. Questo potere sarebbe poi diventato sempre più ampio ed efficace, fino a supplire la latitanza dei magistrati e delle istituzioni civili… In definitiva, l’analisi storica e letteraria dimostra una crescente consapevolezza della responsabilità politica dell’autorità ecclesiastica, in un contesto nel quale essa andava di fatto sostituendosi a quella civile… E’ evidente che il contesto storico, culturale e sociale è oggi profondamente diverso… In ogni caso, a parte le mutate condizioni, restano sempre validi i doveri del credente verso la sua città e la sua patria. L’intreccio degli impegni dell’”onesto cittadino” con quelli del “buon cristiano” non è affatto tramontato» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 31 ottobre 2007].
Sant’Ambrogio a Milano, San Massimo a Torino e altri vescovi del tempo, documentano le radici della cultura cristiana, della civiltà europea nel connubio tra la certezza cristologia e trinitaria della fede completa della Chiesa, la sua chiarezza e la bellezza anche antropologica che in tempi difficilissimi hanno reso luminosa la vita dell’uomo e di questo essi sono stati testimoni entusiasti ed entusiasmanti.
Per san Massimo la comunione dei battezzati è l’umanità compaginata in unità secondo il modello della Trinità: è la città futura, già fin da ora in formazione e che noi cerchiamo di edificare con la nostra vita personale e sociale. Essa è l’immagine ideale della Chiesa alla fine della settimana al cui inizio troviamo la Chiesa terrena, nata nel cenacolo di Gerusalemme. La Chiesa che è nel tempo tesa fra questa Chiesa dell’origine e la Chiesa della fine, che già ora sta crescendo. Di qui possiamo comprendere che cosa sia propriamente la Chiesa, nella sua profondità più misteriosa della sua essenza: il superamento dei confini tra l’io e il tu, l’unione degli uomini tra loro mediante il superamento di sé in ciò che rappresenta la loro origine e il loro fondamento, nell’amore eterno. La Chiesa è l’inscrizione e l’incorporazione dell’umanità nella modalità di vita che è propria del Dio trinitario. E in questo contesto di partecipazione alla comunione trinitaria Massimo illumina uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e comportamento, tra Vangelo e cultura fino a proclamare anche il preciso dovere di far fronte agli oneri fiscali, per quanto gravosi e sgraditi essi possano apparire (Sermone 26,2). E in continuità bimillenaria con tutta la tradizione il Concilio Vaticano II esorta i fedeli a “compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno” (GS n. 43). Nel diciottesimo Sermone Massimo stigmatizza forme ricorrenti di sciacallaggio sulle altrui disgrazie. “Dimmi, cristiano”, così il vescovo apostrofa i suoi fedeli, “dimmi: perché hai preso la preda abbandonata dai predoni? Perché hai introdotto nella sua casa un “guadagno”, come pensi tu stesso, sbranato e contaminato?”. “Ma forse”, prosegue, “tu dici di aver comperato, e per questo pensi di evitare l’accusa di avarizia. Ma non è in questo modo che si può far corrispondere la compera alla vendita. E’ una buona cosa comperare (la libertà di mercato), ma in tempo di pace ciò che si vende liberamente, non durante un saccheggio ciò che è stato rapinato…Agisce dunque da cristiano e da cittadino chi compera per restituire” (Sermone 18,3).
Senza darlo troppo a vedere - osserva Benedetto XVI-, Massimo giunge così a predicare una relazione profonda tra i doveri del cristiano e il cittadino (una unità tra fede e comportamento, tra Vangelo e cultura). Ai suoi occhi, vivere la vita cristiana significa anche assumere gli impegni civili. Viceversa, ogni cristiano che “pur potendo vivere col suo lavoro, cattura la preda altrui col furore delle fiere”,che “insidia il suo vicino, che ogni giorno tenta di rosicchiare i confini altrui, di impadronirsi dei prodotti” non gli appare neanche più simile alla volpe che sgozza le galline, ma al lupo che si avventa sui porci” (Sermone 41,4).
“Seguendo il magistero di san Massimo e di molti altri Padri - conclude Benedetto XVI , facciamo nostro l’auspicio del Concilio, che sempre di più i fedeli siano desiderosi di “esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici e professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato alla gloria di Dio” e così al bene dell’umanità”.
E qui fin da san Massimo vediamo che l’incorporazione dell’umanità nella modalità di vita che è propria del Dio trinitario non concerne un gruppo o un circolo di amici; per questo non può essere Chiesa nazionale, né identificarsi con una razza o con una classe economica e sociale: essa deve essere cattolica, “radunare in unità i figli di Dio che sono dispersi”, come dice la formula del vangelo di Giovanni.