Fedeltà liturgica al Concilio in continuità dinamica, viva, fin dagli Apostoli

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
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A sessant’anni di distanza dalla pubblicazione dell’enciclica di Pio XII Mediator Dei il dibattito sulla Liturgia si sta provvidenzialmente facendo quanto mai aperto e vivo: la recente entrata in vigore del motu proprio Summum Pontificum - con il quale Benedetto XVI ha concesso la possibilità di celebrare l’Eucaristia, in forma straordinaria in rapporto a quella ordinaria del 1970 di Paolo VI, senza dover chiedere il permesso al vescovo - sta alimentando un confronto che a partire dal Concilio Vaticano II non è mai stato così senza pregiudizi e con grande carità, necessariamente guidato dalla Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti
In una intervista del suo segretario, l’arcivescovo Albert Malcom Ranjith, pubblicata su L’Osservatore Romano del 19 novembre 2007, abbiamo colto i vari aspetti, a cominciare dagli aspetti qualificanti della Mediatori Dei, anticipo qualificante del documento conciliare Sacrosanctum Concilium.
La Mediator Dei, momento forte del grande movimento liturgico e biblico avviato al tempo di Pio X con il motu proprio Tra le sollecitudini, presenta ai fedeli una sintesi teologica dell’intima essenza della liturgia: si sofferma a coglierne le origini e la definisce come l’atto sacerdotale di Cristo che rende lode e gloria a Dio e - soprattutto attraverso il suo sacrificio- effettua la volontà salvifica del Padre. In questo senso Cristo crocefisso - risorto, nel suo farsi continuamente presente attraverso la sacramentalità liturgica, è veramente centro e culmine della preghiera e del ruolo sacerdotale della Chiesa, di noi quando liturgicamente conveniamo fraternamente, consapevolmente, attivamente insieme, in una comunione autorevolmente guidata. “Il Divino Redentore - leggiamo nell’enciclica - volle, poi, che la vita sacerdotale da Lui iniziata nel suo corpo mortale con le sue preghiere e il suo sacrificio, non cessasse nel corso dei secoli nel suo Corpo Mistico che è la Chiesa”. In sostanza l’enciclica evidenzia il senso teologico - sacramentale della Divina Liturgia: dopo la conclusione della fase terrena dell’avvenimento storico dell’incarnazione del Figlio di Dio in Gesù di Nazaret si è schiusa con la risurrezione e il dono del Suo Spirito il cammino sacramentale, liturgico dell’incontro con la Persona di Gesù Cristo che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Ma che cosa porta l’incontro liturgico con Gesù se non porta sempre la pace nel mondo, non porta sempre il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa porta? La risposta è molto semplice del senso teologico della Divina Liturgia: Dio. Porta Dio che ama ogni uomo fino al perdono, comunque ridotto. Quel Dio, il cui volto si era prima manifestato a poco a poco da Abramo fino alla letteratura sapienziale, passando per Mosé e i Profeti - quel Dio che solo in Israele aveva mostrato il suo volto e che, pur sotto molteplici ombre, era stato onorato nel mondo delle genti - questo Dio tripersonale, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio vero che tutti affratella come amici la liturgia porta ai popoli della terra. La liturgia porta Dio di cui conosciamo il suo volto e ora possiamo invocarlo. Conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù Cristo, crocefisso risorto nel darsi liturgico continuo porta Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza; la fede, la speranza e l’amore. Solo la nostra durezza di cuore, gli occhi non puri può farci ritenere che questo nostro incontro con Lui nella semplicità dei segni liturgici sia poco. Sì, il potere di Dio nel mondo è silenzioso, ma è l’unico potere vero, duraturo. La causa di Dio sembra trovarsi continuamente in agonia. Ma si dimostra sempre ciò che veramente permane e salva. I regni del mondo, che Satana che fin da Gesù poté mostrare al Signore, nel frattempo sono tutti sempre crollati: da Nerone a Domiziano costringendo la Chiesa nell’icona della donna con il bambino al rifugio nel deserto; il nazismo e la dittatura comunista di Stalin e oggi il secolarismo. La loro gloria, la loro doxa, si è dimostrata e si dimostrerà apparenza. Ma la gloria del Gesù di Nazaret, la gloria umile nella presenza liturgica della Chiesa disposta a soffrire, la gloria di chi crede alla verità con la sola forza della verità, di chi crede all’amore con la sola forza dell’amore non è mai tramontata e non tramonterà: non siamo noi - come ha continuato a ripetere prima e dopo la sua elezione Benedetto XVI - che compiamo l’atto liturgico ma in esso ci conformiamo all’atto liturgico celeste che già sta accadendo in eterno.

Che rapporto c’è tra l’enciclica di Pio XII “sulla sacra liturgia” e la Sacrosanctum Concilium?
Tutto il cammino di riforma anteriore al Concilio fu una sorta di apertura verso ciò che sarebbe poi successo nel Concilio Vaticano. Di fatto la Sacrosanctum Concilium fu il primo documento approvato, documentando non solo l’importanza centrale della liturgia per la vita della Chiesa, ma anche che i padri conciliari avevano già a disposizione gli strumenti per prendere una rapida definizione al rinnovamento della liturgia. Vagaggini con Il senso teologico della liturgia (tra le mani di gran parte die Padri) e tutti gli altri esperti che avevano lavorato per guidare la riforma anteriore al Concilio, sono stati coinvolti nella preparazione della Sacrosanctum Concilium.
Questa continuità pratica si abbina - pur nell’accentuata preoccupazione pastorale di rendere la liturgia più consapevole, efficace e partecipata - con la continuità teologica della partecipazione alla liturgia celeste. La Sacrosanctum Concilium - sottolinea il Segretario - continua la grande tradizione della Mediator Dei, così come la Mediator Dei si era posta sulla linea di tutti i precedenti pontefici, in particolare san Pio X. E qui occorre superare certi pregiudizi sulla Chiesa anteriore al Concilio. Nel Rapporto sulla fede il cardinal Ratzinger parlava della distinzione tra una interpretazione fedele al Concilio e un approccio piuttosto avventuroso e irreale allo stesso, portato avanti da certi circoli teologici animati da quello che veniva definito lo “spirito del concilio” e che lui invece definisce “anti spirito” con tesi che si presumeva fossero diventate improvvisamente possibili, nonostante non coincidessero, in realtà, con il dogma. “Tale distinzione - annota il Segretario - si può cogliere anche relativamente a quanto accaduto in materia liturgica: in diverse innovazioni introdotte si possono infatti riscontrare delle differenze sostanziali tra il testo della Sacrosanctum Concilium e la riforma postconciliare portata avanti. E’ vero che il documento lasciava spazi aperti all’interpretazione e alla ricerca, ma ciò non vuol dire che esso invitasse a un rinnovamento liturgico inteso come qualcosa da realizzare ex novo; al contrario, esso si inseriva pienamente nella tradizione della Chiesa”. L’accentuazione pastorale del Concilio ha puntato alla vitalità della fede nella nostra epoca, per la sua espressione e comprensibilità da parte degli uomini di questo tempo, ma nella totale fedeltà di fondo alla sua profonda identità cattolica della fede.

Dalla Mediator Dei ai documenti conciliari la centralità di Cristo nella liturgia è sempre affermata con chiarezza e vigore: e nel dopoconcilio?
“La liturgia - così valuta il Segretario - in certi luoghi non sembra riflettere il suo cristocentrismo ma esprime invece uno spirito di immanentismo e di antropocentrismo (non cristocentrico, tanto meno teocentrico). La verità è ben diversa: un vero antropocentrismo deve essere cristocentrico, (teocentrico). Quello che succede sull’altare è un qualche cosa che non operiamo noi: è Cristo che agisce e la centralità della figura di Cristo sottrae quell’atto al nostro governo. Noi siamo assorbiti e ci facciamo assorbire in quell’atto, tanto che alla fine della preghiera eucaristica pronunciamo la stupenda dossologia che recita: “Per Lui, in Lui e con Lui”. Nella liturgia, che è il cuore della Tradizione o comunione nel tempo, c’è una continuità dinamica, che è il criterio di verità della Chiesa. Nell’Antico Testamento emerge una grande continuità nei riti e lo stesso Gesù ha continuato ad essere fedele al rituale dei padri. In seguito la Chiesa ha proseguito su questa stessa linea. San Paolo afferma: “Io trasmetto a voi ciò che ho ricevuto” (1 Cor 11,23), e non “ciò che ho inventato, creato io”. Questa è una esigenza centrale: noi siamo chiamati a essere fedeli a questa continuità dinamica, viva che non ci appartiene ma che ci viene data; dobbiamo essere fedeli alla serietà con cui si celebrano i sacramenti.

Non ha senso la contrapposizione tra tradizionalisti e innovatori
Non c’era e non c’è cesura tra un prima del Concilio e un dopo il Concilio, c’è invece una linea di continuità, di comunione nel tempo. Riguardo alla forma straordinaria della messa tridentina nell’edizione del 1962 di Giovanni XXIII c’è stata una domanda crescente nel tempo, via via sempre più organizzata. Di contro, la fedeltà alle norme della celebrazione dei sacramenti continuava a calare e più diminuiva tale fedeltà, il senso della bellezza e dello stupore della liturgia, e più aumentava la richiesta per la messa tridentina. E questo non solo da parte di quei gruppi particolari, ma anche a causa di chi ha avuto poco rispetto per le norme della celebrazione degna secondo il novus ordo del 1970 di Paolo VI, che resta anche la forma ordinaria.
“Per tanti anni - osserva il Segretario - la liturgia ha subito troppi abusi e tanti vescovi li hanno ignorati. Papa Giovanni Paolo II aveva fatto un accorato appello nell’Ecclesia Dei afflicta che altro non era se non un richiamo alla Chiesa ad essere più seria nella liturgia. La stessa cosa è avvenuta con l’istruzione Redemptionis sacramentum.Eppure in certi circoli di liturgisti e uffici di liturgia questo documento è stato criticato. Il problema quindi non era la richiesta della messa tridentina, quanto piuttosto un abuso illimitato della nobiltà e della dignità della celebrazione eucaristica. Di fronte a ciò il Santo Padre non poteva tacere: come si nota nella lettera scritta ai vescovi sul motu proprio e anche nei suoi molteplici discorsi, egli sente un profondo senso di responsabilità pastorale. Questo documento perciò oltre ad essere un tentativo di cercare l’unione con la Fraternità Sacerdotale di san Pio X - è anche un segno, un forte richiamo del pastore universale a un senso di serietà”.

Cosa si insegna nei seminari e nella formazione permanente dei sacerdoti?
Non ci si può accostare alla liturgia con atteggiamento superficiale e poco scientifico. E questo sia per chi si permette un’interpretazione “creativa” e sia di chi presume troppo facilmente di stabilire come era la liturgia delle origini. Non è accettabile neppure la tendenza a sottovalutare quanto la Chiesa ha maturato nel secondo millennio di storia per il principio di sviluppo continuo: ciò che conta è l’azione continua dello Spirito in continua crescita, pur negli alti e bassi della storia. Noi dobbiamo essere fedeli alla continuità dinamica, alla comunione nel tempo o Tradizione.
E la liturgia è centrale per la vita della Chiesa: lex orandi, lex credendi, ma anche lex vivendi. Per un rinnovamento vero della Chiesa - tanto desiderato dal Concilio Vaticano II - è necessario che non si limiti la liturgia a uno studio solo accademico, che questa diventi una priorità assoluta nelle chiese particolari, nelle diocesi, nelle chiese locali, nelle parrocchie: occorre viverla davanti e svilupparla davanti a Dio che ama ogni uomo comunque ridotto, davanti alla presenza di Cristo e con Lui Signore, sotto gli occhi della Madre di Dio. Nei Seminari si educa alla forma ordinaria e qualche volta alla forma straordinaria. Davanti al calo tremendo dell’appuntamento anche festivo della Messa occorre che alla formazione liturgica secondo la mente della Chiesa sia data la giusta importanza nei seminari e nelle parrocchie. La vita sacerdotale di incontro e di agire nella Persona di Cristo è strettamente legata a quello che il sacerdote celebra e come lo celebra. Se un sacerdote celebra consapevolmente in un vissuto fraterno di comunione ecclesiale l’Eucaristia assimila progressivamente a Cristo, al suo darsi sacrificale continuo, all’altezza, alla profondità, alla larghezza e alla lunghezza dell’amore pastorale. Fondamentale nella formazione dei seminari e nella formazione permanente dei sacerdoti la consapevolezza liturgica, sacramentale del concreto vissuto fraterno della Chiesa: è una grande responsabilità dei vescovi per un vero rinnovamento della Chiesa.

Gregoriano e canti che si rifanno o non rifanno alla tradizione del gregoriano
Un grande educatore su questo è stato Giussani. Il Papa nella Sacramentum caritatis ha parlato chiaramente della necessità di insegnare nei seminari il canto gregoriano e la lingua latina: non possiamo non custodire e valorizzare tale immenso patrimonio della Chiesa cattolica e utilizzarlo per rendere lode al Signore.
Ma vi sono nell’uso comune molti canti che non si rifanno alla tradizione del gregoriano e che sono edificanti per la fede, che alimentano spiritualmente chi partecipa alla liturgia e che dispongono realmente il cuore dei fedeli all’ascolto della voce di Dio. Una grande discrezione è necessaria anche per gli strumenti musicali e occorre un dialogo forte per entrare nel cuore non solo dei musicisti ma di tutti quelli che si dedicano all’arte sacra.

Semplicità e ricchezza di patrimonio nell’incontro liturgico con la Persona di Gesù Cristo
“Ancora molte cose ho da dirvi”. Per intendere correttamente questa espressione dobbiamo tenere presente anche un’altra affermazione che Gesù in procinto di lasciarli, rivolge ai discepoli e che solo apparentemente contraddice a questa. Nel capitolo 15 di Giovanni si dice: “Non vi chiamo più servi, ma amici…” Ciò significa anche: Gesù ci ha donato e ci dona nell’incontro liturgico con Lui innanzi tutto, senza alcun nostro intervento - cioè per sua totale iniziativa di grazia- la sua amicizia, e in questo modo ci ha fatto e fa conoscere ogni cosa a tutti, ai semplici ciò che è proprio e peculiare di ogni uomo altrettanto bene quanto lo comprendono i dotti, spesso i semplici meglio dei dotti. San Giovanni della Croce lo ha detto una volta in questi termini: “Dio ci ha dato suo Figlio che è la sua parola, e così egli ci ha dato tutto in una volta in quest’unica parola e non resta più nient’altro da dire”. Per cui all’inizio dell’essere cristiano - e quindi all’origine di ogni nostra testimonianza di credenti - non c’è una idea, un patrimonio culturale di idee, una decisione esistenziale etica, ma l’incontro liturgico, attraverso un vissuto ecclesiale di comunione fraterna e la semplicità sacramentale dei sette segni, con la Persona di Gesù Cristo che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Non tutti hanno la capacità e la possibilità di dedicarsi alla scienza biblica, teologica, storico- liturgica ma a tutti è accessibile la semplicità sacramentale della via liturgica dell’incontro con la Persona di Gesù Cristo.
A dire il vero, per considerare a fondo, per esprimerne la ricchezza, per sentirsi amati e amare fino in fondo e patire quest’unica parola - quest’unica parola fatta concretissimamente carne nel grembo di Maria due mila anni fa e sacramento nella liturgia, nella liturgia eucaristica offrendosi come sorgente di vita divina - la storia intera non basta. Per questo motivo, pur nella continuità dinamica c’è sempre qualcosa di nuovo da dire di essa. Per questo, per ogni generazione essa è quella parola nuova che sgorga dall’inesauribilità dell’incontro con questa amicizia. Ma in base a questo non si viene creando un cristianesimo superiore che gradualmente si lasci alle spalle la fede degli apostoli come qualcosa di ingenuo e di irrilevante. E neppure si scivola a poco a poco, abbandonando l’essenzialità perenne della fede cattolica, in un complesso ferraginoso di dottrine, che da ultimo non sia più possibile abbracciare con lo sguardo. Liturgicamente il cristianesimo è una religione popolare in cui non è ammissibile un percorso a due classi cioè i semplici e i dotti.
Tutte queste parole, invece, che sgorgano da un pensare che nasce dalla fede cattolica, dalla sorgente del suo amore e che crescono nel cammino che si fa in sua compagnia, sono davvero solo argomentazioni opinabili di quell’unica Parola, nella quale tutto è stato detto, celebrato, vissuto, pregato. In ciò consistono l’unità, la comunione nel tempo o tradizione di passato, presente, futuro e la semplicità sacramentale, liturgica del cristianesimo, e anche la sua inesauribilità storica. L’infinita amicizia di Dio per noi è l’unico e veramente sconfinato tema della storia: quella Realtà sacramentale, liturgica, che è sempre nuova per l’uomo e che, nel contempo, trascende sempre ogni nostra affermazione, ogni nostra elaborazione.
Di qui dipende anche il fatto che la liturgia è per i semplici tanto quanto per i complicati, senza essere troppo pretenziosa per gli uni, né eccessivamente banale per gli altri: l’amicizia del Verbo di Dio per noi tutti è la cosa più comprensibile e la più vicina, accessibile, e insieme la più grande e inconcepibile che possa esserci. E’ questa unità sincronica e diacronica, questa comunione nel tempo o tradizione che sola permette di affratellare tutte le diversità. Nelle molte parole si tratta di quella parola in cui tutto è stato detto. Quanto più viviamo in essa, tanto più restiamo uniti, anche nella frammentazione dei discorsi. Perciò è così importante che noi, nella frammentazione dei discorsi, perseveriamo incessantemente - come osserva Ratzinger in Collaboratori della verità (pp. 481-482) - nella ricerca dell’unica Parola, nell’incontro liturgico con l’unica Persona Gesù Cristo. Per questo è tanto importante che, con tutto il nostro cuore in vissuti fraterni, noi cerchiamo la sua amicizia, perché essa è anche il vero luogo dell’amicizia che ci lega gli uni agli altri.