Fine del moralismo
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«Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l’etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall’amore “folle” di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (Rm 8,39). E’ questa certezza a donarci (sempre) la forza di vivere concretamente la fede nell’amore» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 26 novembre 2008].
E’ Cristo, la fede in Lui, l’incontro sacramentale con Lui che ci fa giusti
Come l’uomo diventa giusto davanti a Dio? L’uomo non è in grado di farsi “giusto” con le proprie azioni, giungendo con le proprie forze alla coerenza, ma può realmente divenire “giusto” davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua “giustizia” unendolo a Cristo suo Figlio, assimilandolo a Lui, dandogli la possibilità di amare in modo divino attraverso il dono dello Spirito del Risorto. E questa unione con Cristo, questa amicizia con Lui che rende libera la totale obbedienza in tutti gli ambiti, l’uomo la ottiene solo mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere cui, però, puntare con una tensione morale, ma la fede e quindi la riuscita, la coerenza morale da invocare nell’amicizia continua con Cristo, ci rende “giusti”. Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un’opinione, un programma etico sia pure meraviglioso. Egli non si rivela a noi, non ci viene incontro attraverso una illuminazione puramente interiore occasionata dalla predicazione di un messaggio, da un’analisi solo letteraria della Bibbia, da una conoscenza solo intellettuale dello splendore umano del Gesù di allora, e neppure delle verità della fede: Egli risorto, ecclesialmente presente si rivela a noi, ci viene incontro attraverso mediazioni “materiali” come i sacramenti, attraverso vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata. La bontà racchiusa in questa umiliazione del Verbo come via umana alla Verità e alla Vita non finisce mai di commuoverci e di stupirci, a causa della tenera condiscendenza che Egli ha dimostrato nei nostri confronti, tenendo presente sia la nostra costituzione corporeo – spirituale (parola e sacramenti: il Verbo è di fatto carne, e non semplicemente parola), sia il noi sacramentale di vissuti fraterni ecclesiali (la fiducia in quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme). Questa fede è comunione personale e comunitaria con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa assimilazione a Lui, conformità con Lui, capacità di amare con il suo amore dato in dono dal Suo Spirito. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, fa accadere, rende visibile il suo amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede in Lui che è Amore senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede in Lui. Sarebbe fede morta.
Due percorsi alternativi: uno costruito da noi sulla riuscita nelle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo che rende giusti
Non rilevanza, allora, delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza? “Giustificazione” mediante la fede che produce il frutto dello Spirito?
La confusione tra questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità e anche oggi urge maturane una coscienza chiara. Nella Lettera ai Galati san Paolo, da una parte, pone l’accento in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione cioè non per la riuscita delle nostre opere, ma al tempo stesso, sottolinea la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: “In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le “opere della carne” che sono “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria…” (Gal 5,19-21): tutte opere contrarie alla fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo dono del Risorto, che alimenta la vita cristiana suscitando “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede. In questo orizzonte di amore gratuito si è subito imposta fin dalle origini della evangelizzazione la testimonianza della castità. Quando l’evangelizzazione si è affacciata alla ribalta della storia – nel mondo greco – romano soprattutto con san Paolo, oltre che nei territori dell’antico regno di Israele – ha dovuto fare i conti con una cultura contrassegnata da una concezione dell’erotismo, da una pratica della sessualità, da una regolamentazione dell’istituto matrimoniale anche per gli ebrei, che è percepita subito come estranea alla fiducia di divenire quello che si è lasciandosi assimilare a Cristo, amare con il suo amore e anzi con l’umanità nuova, nata attraverso il Battesimo e gli altri sacramenti, dall’evento pasquale. E non ci furono esitazioni: s’impose dall’inizio la persuasione universale e compatta fin dal Concilio di Gerusalemme che in tale materia non fossero ammissibili ambiguità e compromessi a livello di tensione morale, anche se la riuscita, la coerenza andava invocata dalla comunione continua con Cristo, dall’amicizia con Lui: nessun moralismo, quindi! Il “popolo nuovo” iniziato con la risurrezione ed emerso dall’acqua e dallo Spirito, si notava, si distingueva – oltre per il fenomeno inaudito dello stile di amore fraterno nella Chiesa e di attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti visti tutti come prossimo – anche per una forma esigente e radicale di castità. Tutte le attestazioni in nostro possesso sono concordi. Lo si evince dagli elenchi che Paolo fa delle trasgressioni inammissibili cui puntare ad evitare nell’esistenza cristiana, anche se graduale la riuscita, da invocare nell’amicizia con Cristo la coerenza che rende casti, giusti (1 Corinzi 6,9; Efesini 5,5; Galati 5,19-20).
All’inizio l’agape, l’amore, e nella conclusione il domino di sé
In realtà, lo Spirito, che è l’Amore del Padre e del Figlio, ciò che di più intimo c’è nel Risorto e che realizza l’incontro di ogni uomo con Lui nella Chiesa, effonde il suo primo dono, l’agape, nei nostri cuori (Rm 5,5); e l’agape, l’amore, per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé. E dell’amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, Benedetto XVI ha trattato nella sua prima enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell’amore fraterno vicendevole s’incarna lo stesso amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. E il suo regno non è un al di là immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Nella Lettera ai Galati san Paolo dice che portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell’amore (Gal 6,2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell’amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso nella parabola dell’ultimo Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell’amore. E’ il cosiddetto inno alla carità: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sarei come un bronzo che rimbomba o come un cimbalo che strepita… La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse… Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13, 1.4-6). L’amore cristiano, a livello di tensione e di richiesta nella preghiera, è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, a inquietarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo ma per “colui che è morto e risorto per noi” (2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo corpo mistico che è la Chiesa. La forte unità fraterna che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco tra fratelli nella fede e dall’attenzione premurosa a tutti i poveri e ai sofferenti come prossimo ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. E questa testimonianza di un umano eccezionale che ha fatto riflettere anche quelli non avvezzi a far posto a Dio, che possiede in Cristo un volto umano, nei loro pensieri e rimane la strada maestra per l’evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore, tra fede e opere nelle condizioni proprie del nostro tempo.
La nostra stessa fede si esprime, si rivela in una vita secondo lo Spirito, secondo l’Amore
Spesso si è vista un’infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive: “Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (2,26). In realtà, mentre Paolo è giustamente preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede, la comunione, l’amicizia con Cristo è necessaria per riuscire, per essere coerenti nella stessa tensione morale e addirittura sufficiente perché anche quando non si riesce, se si riconosce il proprio peccato e ci si affida alla sua misericordia, Lui ci rende giusti, Giacomo pone l’accento sulle relazioni consequenziali di vissuto etico-esistenziale tra la fede, la comunione, l’amicizia con Cristo e le opere che la documentano, la rendono comprensibile e dicibile, la rivelano, ne fanno notizia. (Gc 2, 2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell’amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno della nostra totale cooperazione, di essere custodita e testimoniata “con rispetto e timore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno di amore (senza costringerci, ma sollecitandoci). Fate tutto senza mormorare e senza esitare… tenendo salda la parola di vita”, dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (Fil 2,12-14.16).
Fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto e che possono ripetersi anche oggi
Si tratta di quei cristiani che pensavano e pensano che, essendo stati oggettivamente giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, soggettivamente non urga più un ethos consequenziale, per cui “tutto fosse, sia loro lecito”. E pensavano, e spesso sembra che lo pensiono anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, come se la diversità di opinioni, di argomentazioni teologiche, siano più importanti della fraternità sacramentale battesimale e presbiterale, permettersi di celebrare l’Eucaristia senza farsi carico dei fratelli della fede più bisognosi e dell’attenzione a tutti gli uomini poveri e sofferenti nostro prossimo in Cristo, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto che ogni carisma particolare è fecondo come parte del tutto nella Chiesa, di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede, degli stessi carismi di fede, che non s’incarnano nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli, perpetrato, qualche volta addirittura, in nome di Cristo. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prender rinnovata coscienza del fatto, che proprio perché resi giusti da Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, siamo diventati oggettivamente “uno in Cristo” (Gal 3,28), un unico soggetto nuovo e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata sul battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità cristiana” chiamata a trasformare il mondo. Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione oggettiva, se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo soggettivamente con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo che rende “ragionevole” cioè verificabile, comprensibile, dicibile a tutti il nostro culto “spirituale”, la nostra comunione, la nostra amicizia liturgica con Lui, per cui siamo esortati da Paolo a “offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia oggettivamente sempre rivolta soltanto al Signore, senza soggettivamente diventare, nello stesso tempo, servizio ai fratelli, diaconia della carità, una fede che non si esprimesse nella carità? E l’apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti “dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Cor 5,10; Rm 2,16). E la fede nel Giudizio finale è luogo di apprendimento e di esercizio della fede che Dio ama di più. La speranza e la carità.