Parola d’ordine: ripartire dall’educazione
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Più di mille parole, più di molte buone intenzioni, le parole della signora Marisa, vedova del poliziotto ucciso durante gli scontri fuori dallo stadio di Catania:
‘‘Lui era un educatore alla vita. Vorrei che mio marito ora sia un educatore alla morte, che il suo sacrificio possa portare al cambiamento, perché nessuna famiglia possa vivere questo grande dolore’’.
Ogni padre, ogni madre, ogni insegnante, ogni politico, tutti, dobbiamo chiederci la mattina quando ci alziamo “che educatore sono?”.
Perché non si fa l’educatore, si è educatore.
Si educa vivendo, attraverso le scelte che facciamo, attraverso il modo di giudicare le cose che accadono, attraverso il modo di lavorare e di vivere.
Quanti genitori sui campi di calcio di periferia, guardano i loro figli di dieci o dodici anni correre dietro ad un pallone e offrono loro uno spettacolo indegno, insultando l’arbitro, giustificando le intemperanze in campo del loro rampollo, dando sempre la colpa all’allenatore che non riconosce le doti del figlio, al guardalinee che non vede il fuorigioco.
Non stupiamoci se quei piccoli calciatori sognano di diventare Totti, Cannavaro o Ronaldo, non c’è nulla di male nei sogni, anzi, qualcuno però insegni loro, che i sogni si raggiungono con l’impegno e la fatica e quando non si avverano vuol dire che la strada era un’altra e spesso chi l’ha segnata la conosceva meglio di noi.
Qualcuno da tempo grida che nel nostro paese c’è una “EMERGENZA EDUCAZIONE” e i fatti che accadono non sono altro che la conferma che è dall’educazione che si deve ripartire.
Non è il calcio ad essere malato, non è solo il calcio, siamo noi, solo che si corre ai ripari quando qualcuno perde la vita, ma la guerriglia fuori dagli stadi, le liti per il posteggio, le intemperanze degli alunni nei confronti degli insegnanti, i genitori che difendono i loro figli quando gli insegnanti danno loro una nota, le trasmissioni dove per un po’ di notorietà si è pronti a scusare tutto.
Sono segni di un degrado educativo che non può che portare frutti marci.
Ci vuole l’impegno di tutti, perché come ha detto la vedova Raciti: “La sua morte induca la società a cambiare”.