Il perché del nostro leale “non possumus”

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Su Avvenire del 6 febbraio 2007 il non possumus dei Vescovi ha scatenato le proteste e le ire della sinistra, da più parti si sono fatte ipotesi fantasiose, secondo alcuni la Chiesa alza la voce perché vuole riconquistare un potere perduto, per altri la Chiesa ha passato il limite della decenza con dichiarazioni che vogliono condizionare la politica del Paese, il giorno dopo in risposta a questo articolo Ezio Mauro su Repubblica sosterrà la tesi che la Chiesa divenuta minoranza si stia muovendo per riconquistare spazi e per dare alla politica quei valori culturali che la politica ha perduto.
Nessuno che riconosca che su alcuni temi i Vescovi NON POSSONO TACERE, hanno il dovere di richiamare tutti, non solo i cattolici.
“Un’operazione spericolata da un punto di vista giuridico e ancora di più per significato e impatto sociale.” Dicono i Vescovi a proposito delle indiscrezioni che il 6 febbraio giravano sul disegno di legge.
Ora che questo disegno di legge è stato illustrato e che sappiamo potrà solo essere peggiorato, è chiaro che i Vescovi sono stati lungimiranti, capaci di guardare alle mutazioni che una simile legge porterà nella nostra società, che se da una parte reclama un maggiore impegno educativo dei padri e delle madri, sottolineando che la loro latitanza ha dato origine a generazioni di eterni adolescenti, insoddisfatti e incapaci di un progetto a lungo termine, dall’altra offre su un piatto d’argento la possibilità perché questi adulti del futuro continuino a godere di diritti senza doveri.


Si legge su Avvenire: (…) Se a qualcuno queste sembrano questioni di lana caprina, si ricreda. Un conto è riconoscere alcuni diritti a persone che hanno dato liberamente origine a una situazione di fatto che rimane tale, e tutt’altro è dare a tale condizione una rilevanza giuridica che ne fa, appunto, la fonte di diritti e doveri assai simili a quelli previsti per la famiglia fondata sul matrimonio.
Sulla base di una costruzione giuridica, si riconoscerebbe così tutta una serie di diritti - in materia di successione, di pensione di reversibilità, di obbligo di prestazione di alimenti, di dovere di reciproca assistenza e solidarietà - che non a caso l’ordinamento italiano prevede solo e soltanto in relazione allo status familiare e al valore di assoluta preminenza a questo riconosciuto dalla Costituzione e dalle leggi. E il risultato sarebbe quello di porre in modo forzoso e inevitabilmente sconvolgente su un piano analogo la programmatica stabilità della famiglia definita nell’articolo 29 della nostra Carta fondamentale e la condizione liberamente altra delle scelte di mera convivenza.
Un’operazione spericolata da un punto di vista giuridico e ancora di più per significato e impatto sociale.

È questo il cuore del problema. Creare, sia pure in forma involuta e indiretta, un modello alternativo e spurio di famiglia significa indebolire e mortificare l’istituto coniugale e familiare «nella sua unicità irripetibile» (Benedetto XVI, domenica scorsa): l’esperienza, realizzata in una serie di Paesi, questo sgradevole nesso dimostra in modo incontrovertibile. E significa agire in oggettivo e azzardato contrasto con il favor riconosciuto alla famiglia fondata sul matrimonio dalla Costituzione repubblicana e da una tradizione culturale e giuridica bimillenaria.

Per questi motivi, se il testo che in queste ore circola come indiscrezione fosse sostanzialmente confermato, noi per lealtà dobbiamo fin d’ora dire il nostro “non possumus”. Che non è in alcun modo un gesto di arroganza, piuttosto è la consapevolezza di ciò che dobbiamo - per servizio di amore - al nostro Paese. L’indicazione franca e disarmata di uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana.”