Associazione Cultura Cattolica

Dignità nel vivere e nel morire

E’ appena stato pubblicato il documento “Dignitas personae. Su alcune questioni di bioetica”: ne consigliamo la lettura integrale, che aiuta in un giudizio approfondito e ragionevole.
Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Dignità di ogni persona umana
Secondo la tradizione del pensiero cristiano ogni persona è un modo di essere unico e irripetibile di ogni individuo nella natura umana. L’essere umano in ogni persona è come l’essere in se stesso e per se stesso e quindi di se stesso. Le persone sono ontologicamente capaci di esistere nella loro natura da essere capaci di decidere il loro modo di essere conformemente o difformemente da essa. Anche se l’uso di questa capacità è condizionato da vari fattori, quali ad esempio l’età, lo sviluppo neuronale o altre condizioni di salute. La persona designa un essere dono del Donatore divino originariamente proprio, che non troviamo in nessun’altra individualità. Percepirlo è cogliere la verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza, l’avvenimento di una conoscenza che rimanda all’origine del proprio e altrui essere e che risponde alle domande fondamentali in noi senza di noi: chi sono? Da dove vengo e dove vado?
Dignità di ogni persona indica questo modo proprio di essere: essere qualcuno è più che essere qualcosa di totalmente comprensibile, dicibile, prevedibile, programmabile: si tratta di un di più, di un’eccellenza e di una superiorità nell’essere. Dignità indica esigenza di essere riconosciuta in questo di più per cui possiede la propria natura umana. Ma allora cosa significa per ogni persona dignità nel vivere e nel morire conforme al proprio essere persona? Due premesse:
- ogni individuo umano è persona. Là dove vive un uomo c’è una persona umana: l’essere persona è dall’origine e in continuità la vita di ogni uomo. Non è possibile avere criteri per discernere fra gli individui umani chi è persona e chi non: è la pura e semplice appartenenza alla specie umana dal concepimento alla morte naturale.
- il modo proprio di essere persona è costitutivamente relazionato alle altre persone: nessuna persona è senza porte e senza finestre. Relazione fondamentale è il riconoscimento dell’altro come persona: vedi nell’altro e in tutto quello che lo circonda la verità del tuo e del suo essere dono unico e irripetibile del Donatore divino e quindi non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te – ama il prossimo come te stesso. Quando parlo di umanità non denoto una specie vivente come quando parlo di animalità, ma una famiglia umana e ciò che fa di ogni uomo una persona, sempre fine e mai riduttivamente mezzo per altri o per altro. Umanità denota non un insieme di tanti individui che realizzano la stessa specie, ma una comunità di persone legate dal vincolo del riconoscimento reciproco.

Quale vita? Dignità nel vivere
Una tendenza soggettivistica: dignità o indegnità del proprio vivere dipende esclusivamente dal giudizio di chi vive, dal proprio io? Ciascuno giudica se la propria vita è degna, se è una buona vita?
Una risposta positiva a questa domanda nasconde un grave errore, ma anche una verità. Errore perché dimentica che persona è relazione con il Donatore divino del proprio e altrui essere dono, come di tutto il mondo che la circonda e quindi esistono forme, stili di vita obiettivamente indegni di una persona umana, di un io in relazione con il Donatore divino, con gli altri esseri dono, prescindendo dal fatto che in esso la persona si senta o non si senta realizzata. E’ sempre un grave scandalo sia per la ragione e sia per la fede in un Donatore divino provvidente il vedere unite nella stessa persona una condizione di benessere e comportamenti di chiusura, di non dono nella relazione con altri in bisogno.
Ma c’è anche una sua verità. Ogni persona umana in forza della sua soggettività spirituale non è solo mossa ad un fine nella relazione, ma muove se stessa verso un fine. Parlare di “vita degna” all’insaputa e senza la condiscendenza di chi la vive, è un non senso.
“Dignità della vita” denota simultaneamente una condizione di bene comune condivisibile da ogni soggetto ragionevole e in cui il singolo in connubio possa dire: “come è bello vivere così!”
Quando può accadere una condizione obiettiva di vita degna ed una condizione soggettiva di intima soddisfazione per la qualità della propria esistenza? Quando i nostri e altrui bisogni sono ragionevolmente soddisfatti. E’ una esigenza originaria, naturale di ogni persona vivere in società: una vita asociale è indegna di ogni uomo. Tuttavia ci sono modi e modi, forme e forme di vivere associati. Vivere in una società emarginati non è una vita degna dell’uomo. La ragione umana condivisa è chiamata a scoprire la forma buona, degna di ogni persona, della vita associata. Chiamiamo le risposte ragionevoli in relazione alle esigenze naturali di ogni io umano che devono essere realizzate nell’agire beni morali cioè che riguardano il divenire ciò che originariamente siamo. E’ una vita umana degna quella della persona che viene in possesso dei beni morali, dei beni umani operabili. Vita umana degna è uguale a vita moralmente buona. Due osservazioni:
- esistono beni morali che possono essere realizzati non semplicemente operando, ma solo cooperando. Sono i beni che si compiono mediante la virtù della giustizia;
- i beni morali operabili non si collocano tutti sullo stesso piano, ma esiste fra essi una gerarchia: il martire rinuncia alla vita, che è un bene, pur di non spezzare la sua alleanza con Cristo, che è il bene vitale più grande.
Non c’è dubbio che la salute sia un bene umano, un bene morale. Una vita sana è più degna dell’uomo che una vita ammalata. Da questa basilare intuizione è nata la medicina come scienza e arte tesa a conservare o restituire alla persona e nella persona il bene della salute. Due riflessioni su questo:
- la salute diventa sempre più un bene co-operabile. Il bene della salute non si opera solo nel rapporto medico paziente, ma esso è il frutto anche di una organizzazione pubblica. Questo è un fatto positivo ma non deve farci dimenticare che la salute appartiene a quei beni umani che rispondono a bisogni umani che non sono “solvibili” e quindi non possono essere trattati solo con la logica di mercato. La salute è un bene che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità.
- Ma la salute non è un bene sommo. Ogni persona ha il dovere/diritto di fare uso di mezzi terapeutici proporzionati/ordinari, non sproporzionati/straordinari. E questo proprio perché la salute non è un bene sommo, e quindi essa può essere sacrificata per i beni ad essa superiori.

Quale morte? Dignità nel morire
Parlare di una “dignità nel morire” è diventato oggi, nella cultura post-moderna, un non senso: morire è semplicemente cessare di vivere.
Si va facendo strada oggi l’idea che l’unica nobilitazione della morte è di attribuirla pienamente all’autodeterminazione del singolo, sia attuale (suicidio puro e semplice) sia anticipata (suicidio assistito).
Questa nobilitazione è oggi inserita nel dibattito assai acceso circa un’eventuale legislazione – che oggi è diventata necessaria – sulla fine della vita.
Il prudente discernimento tra interventi terapeutici che hanno il profilo dell’accanimento terapeutico o di terapie proporzionate, rientra nel diritto di ogni persona di vivere una vita degna, che non esclude anzi comprende l’accettazione della morte.
E’ necessario poi distinguere nettamente fra terapia e cura della persona (idratazione, alimentazione, pulizia…). La seconda è sempre dovuta, e la sua omissione avrebbe eticamente il profilo dell’omicidio. La prima invece è dovuta fatte però le necessarie distinzioni.
Fatte queste chiarificazioni, possiamo parlare con verità di dignità nel morire? Quando la morte è degna di una persona umana?
Se guardiamo con sguardo fugace alla tradizione etica del nostro Occidente, costatiamo che indubbiamente il concetto di dignità della morte è presente. Sotto almeno tre figure.
- la figura della nobilitazione del suicidio. La morte del suicida acquista, secondo questa visione, una sua dignità come contestazione di un ordine delle cose umane ritenuto assolutamente assurdo.
- La figura del martire. Già presente nella tradizione giudaica (la grande epopea maccabaica), e non assente del tutto dalla grecità (morte di Socrate!), acquista una dignità incomparabile nel cristianesimo.
- E’ invece assolutamente originale la concezione cristiana della dignità nella morte. La morte di Cristo, il suo lasciarsi uccidere è stato l’atto supremo del suo amore poiché in essa è avvenuta la totale donazione di Se stesso a tutti e a tutto, della verità del proprio e altrui essere dono del Donatore divino. La morte come dono di sé è l’originalità del cristiano. E la morte del cristiano è partecipazione alla morte di Cristo: in questa partecipazione sta la sua eminente dignità.
Ma quale contenuto dare all’espressione “dignità nel morire”?

- E’ una morte degna quella di chi ha assicurata la cura della propria persona e le terapie proporzionate.
- E’ una morte degna quella di chi può godere delle cosiddette “cure palliative”, destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia. Anche mediante il ricorso a tipi di analgesici e sedativi che hanno collateralmente l’effetto di abbreviare la vita e perdita di coscienza.
- E’ una morte degna quella di chi è accompagnato dall’attenzione amorosa e costante di altre persone.
- E’ una morte degna quella di chi “muore nel Signore” con gli ultimi suoi gesti o sacramenti ecclesiali: vive la propria morte come atto di fiducioso abbandono nel Signore.

- E’ una morte indegna quella di chi viene privato delle terapie proporzionate e della cura della sua persona o viene sottoposto ad accanimento terapeutico.
- E’ una morte indegna quella di chi viene privato di cure palliative.
- E’ una morte indegna quella di chi viene abbandonato nella sua solitudine di fronte alla morte.
- E’ una morte indegna quella di chi credente nel Cristo, non è aiutato con i sacramenti della Chiesa ad unire le proprie sofferenze a quelle di Gesù per la salvezza dell’umanità.
- Se, infine, una legislazione civile rinunciasse al principio che la vita umana è un bene che non è a disposizione di nessuno, legittimando il suicidio assistito o l’abbandono terapeutico, toglierebbe uno dei pilastri, anzi la colonna portante di tutto l’edificio spirituale costruito sulla base del riconoscimento della dignità di ogni persona. Sarebbe questione di tempo, ma la rovina sarebbe totale!
Queste argomentazioni le ho tratte quasi completamente dalla relazione tenuta il 15 novembre 2008 dal cardinale Carlo Caffarra al Convegno organizzato dalla Associazione Medici Cattolici Italiani.