Rivelazione: Fede e Ragione
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Un documento del magistero ordinario richiede sempre un'attenzione particolare. L'insegnamento che viene offerto è posto in relazione con la fede ecclesiale e intende fornire ai credenti motivo di riflessione e di crescita. Non sfugge a questa condizione; tutt'altro. La sua lettura permette di entrare in un mondo che coinvolge direttamente e, per le tematiche che tocca, si offre a un pubblico certamente più vasto del solo ambito credente.
Una lettura frettolosa di questa enciclica non è certo consigliabile. Sfuggirebbero inevitabilmente intuizioni preziose, commenti sapienti e analisi profonde. Da questa prospettiva, l'incipit potrebbe trarre in inganno e non consentire di cogliere l'originalità sottesa. Fides et ratio, infatti, induce a porre in primo piano i due contenuti che segnano l'intero documento. In effetti, fede e ragione rimangono come il perno intorno al quale ruota l'insegnamento di Giovanni Paolo II in questa sua tredicesima enciclica, eppure, la sua lettura mostra immediatamente che il vero centro portante è un altro. Il cuore di questa enciclica, infatti, è la rivelazione. È a lei che la fede e la ragione guardano, anche se con motivazioni differenti e con finalità diverse. La rivelazione è il centro focale a cui dover fare riferimento e senza della quale l'intero contenuto rimane come sospeso nel vuoto.
L'accenno che viene fatto al tema della rivelazione fin dall'Introduzione è un'indicazione di percorso che si deve tenere presente: "Forte della competenza che le deriva dall'essere depositaria della Rivelazione di Gesù Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della riflessione sulla verità" (n. 6). La verità che Fides et ratio indaga, quindi, trova il suo punto di partenza dalla rivelazione in Gesù Cristo. Come dire: la verità non è teoria né semplice pratica speculativa; essa si snoda, piuttosto, a partire da un evento storico. Qui Dio rivela la verità definitiva su se stesso, l'uomo, il mondo e prospetta un sentiero che deve essere percorso perché la verità possa esprimersi in maniera piena e totale.
Bisogna, dunque, fare i conti con il tema della rivelazione per poter comprendere il senso e il valore che la Chiesa applica alla verità e ai diversi modi per indagarla. Il primo capitolo è interamente dedicato a questo tema. Giovanni Paolo II offre in questi numeri un'autentica sintesi di teologia della rivelazione, come è emersa nella sua novità dal concilio Vaticano II. Gesù rivelatore del Padre è la porta che immette nella rivelazione della Sapienza di Dio. Questa prospettiva non è altro che la trasposizione dell'insegnamento di Dei Verbum, più volte citata in questi numeri. Emergono in maniera chiara alcune caratteristiche proprie della costituzione conciliare: la connotazione trinitaria della rivelazione, la centralità di Gesù Cristo, la gratuità dell'automanifestazione di Dio e la chiamata alla partecipazione alla vita divina rivolta all'umanità. I primi quattro numeri di Dei Verbum sono qui raccolti ed esplicitati avendo come obiettivo primario quello di far cogliere il nesso profondo tra la rivelazione di Dio e la ricerca di senso da parte dell'uomo.
La contestualizzazione che viene offerta, comunque, consente di compiere un passo ulteriore. A nessuno sfuggirà il reale progresso nell'esposizione della rivelazione che Giovanni Paolo II pone in atto con questa enciclica. Essa, di fatto, esplicita ulteriormente quanto Dei Verbum aveva solo accennato e permette di cogliere lo sviluppo che si è attuato a partire dal Vaticano I. Come si sa, il tema della rivelazione è stato trattato nei due concili vaticani. Dei Filius, a onor del vero, non aveva come suo obiettivo primario la rivelazione. Quando i Padri trattarono il tema della sua soprannaturalità, lo fecero in riferimento alla fede. In un periodo in cui si veniva a negare perfino qualsiasi possibilità di conoscenza soprannaturale, limitando alla sola ragione lo spazio per la conoscenza della verità, era obbligatorio che il Magistero intervenisse per difendere la natura della fede cristiana e la sua non contraddittorietà con la verità propria della ragione. Fides et ratio sintetizza questo momento quando afferma che "Il Concilio Vaticano I insegna che la verità raggiunta per via di riflessione filosofica e la verità della Rivelazione non si confondono né una rende superflua l'altra" (n. 9).
Ai suoi inizi, anche il Vaticano II non ebbe come obiettivo primario il tema della rivelazione. Il De fontibus revelationis mostra con evidente chiarezza che scopo del concilio era quello di risolvere la vexata questio lasciata aperta dal concilio tridentino circa la relazione tra Scrittura e Tradizione in ordine alla trasmissione dei contenuti della verità rivelata. Tra il piano degli uomini e quello dello Spirito però corre spesso una differenza e, alla fine, ciò che prevale attraverso le mediazioni più svariate e impensate è sempre l'azione di Dio. Il De fontibus revelationis venne ritirato al termine della prima sessione conciliare, la commissione mista iniziò il suo lavoro trovando il primo grande accordo proprio sul nuovo titolo da dare alla costituzione: De divina revelatione. Il cambiamento che si prospettava non era solo a livello di titolazione. Ciò che i Padri compirono fu un vero progresso e sviluppo nella dottrina. La rivelazione, centrata su Cristo "Mediazione e pienezza" (DV 2), recuperava la categoria di economia propria del pensiero dei Padri della Chiesa. Non stonerà, in questo contesto, ricordare un passaggio dell'intervento del vescovo melchita Georges Hakim, durante la discussione sul primo schema della costituzione. Il vescovo motivò il suo non placet al testo proposto con queste parole: "Gli schemi contengono certamente delle ricchezze e dei valori della teologia latina, e a noi fa piacere rendere un fervente omaggio a questo magnifico intellectus fidei che questa teologia ha procurato alla Chiesa; ma a noi dispiace che dimenticando completamente la catechesi e la teologia orientale, quella di Cirillo di Gerusalemme, di Gregorio di Nazianzio e Gregorio di Nissa, di Massimo, di Giovanni Damasceno e di tanti altri Padri d'oriente, i redattori, nel loro progetto, abbiano monopolizzato la fede universale a profitto della loro teologia particolare, tanto da far sembrare che vogliano erigere a verità conciliare esclusiva ciò che è un'espressione valida, ma locale e parziale, della rivelazione di Dio. Nella teologia orientale - dove la liturgia è il luogo efficace della trasmissione della fede, dove l'iniziazione viene fatta all'interno del mistero sacramentale, e non in una istruzione astratta senza legami simbolici - il mistero di Cristo è proposto direttamente come una economia che si sviluppa nella storia, preparata dall'antica alleanza, compiuta nel Cristo e realizzata nel tempo della Chiesa. Le spiegazioni teoriche, così legittime e necessarie che siano, non sono mai staccate dalla trama scritturistica e dalla testimonianza dei Padri". Risuonava tra le navate della basilica di San Pietro di nuovo l'antico termine di "economia", carico di significato. Esso consentiva di recuperare la comprensione biblica della storia, inserendola nel piano salvifico attuato con l'incarnazione del Figlio di Dio.
Su questo punto bisogna riconoscere il grande coraggio teologico di Giovanni Paolo II e l'originalità che Fides et ratio apporta. Il tutto si potrebbe riassumere con questa semplice battuta: mentre Dei Filius difende il tema della conoscenza per fede, Fides et ratio esplicita la via di conoscenza per rivelazione. Questo è un vero elemento innovativo che merita di essere considerato. La rivelazione si presenta essa stessa come forma di conoscenza e come veicolo per una conoscenza sempre più profonda del mistero e dell'essere. Certo, la via privilegiata per conoscere i contenuti della rivelazione rimane la fede in essa. Questa è realmente la forma più adeguata e coerente perché la rivelazione possa esprimersi in quella profondità che si raccoglie nel mistero. Il Santo Padre lo ribadisce con chiarezza: "Solo la fede permette di entrare all'interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza" (n. 13). La rivelazione, comunque, permane come la novità permanente che viene offerta alla ragione per poter accrescere la sua conoscenza e progredire nella ricerca della verità.
Giovanni Paolo II ritorna diverse volte sul pericolo del soggettivismo e del conseguente rinchiudersi della ragione su se stessa. Forte dell'illusione di essere unica fonte di conoscenza della verità e sotto il peso della conquista del suo sapere, "la ragione si è curvata su se stessa divenendo giorno dopo giorno incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere" (n. 5). La rivelazione, quindi, è la strada maestra offerta alla ragione per ritornare sui suoi passi e riprendere lo slancio speculativo. È riduttivo pensare che il contenuto rivelato possa interessare solo la fede; Fides et ratio rivendica giustamente il carattere universale di questo contenuto e il profondo significato che esso riveste anche per la riflessione filosofica: "L'insegnamento dei due Concili Vaticani apre un vero orizzonte di novità anche per il sapere filosofico. La Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l'uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall'altra parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella fede". (n. 14). La rivelazione, continua il Papa, "produce pensiero" (n. 15) perché consente di inserirsi nell'orizzonte del mistero.
"Mistero" è il termine che ritorna sovente in questa sezione. La rivelazione è collocata sullo sfondo del mistero ed è presentata essa stessa come mistero. La forte sottolineatura, tuttavia, non è data per limitare lo spazio di indagine della ragione quanto, piuttosto, per ribadire la sua autonomia anche dinanzi alla sfida estrema posta dal mistero. Abituati spesso ad arrendersi dinanzi a ciò che non si comprende, è diventato luogo comune identificare con il mistero ciò che all'uomo è impossibile conoscere. Fides et ratio, invece, segue un'altra strada. Il mistero è presentato come lo spazio offerto alla ragione per procedere sempre oltre se stessa, nella ricerca di una verità che potrà essere data sempre e solo come dono. Se si vuole, è proprio intorno alla realtà del "mistero" che è possibile ritrovare l'equilibrio abbandonato tra la soggettività della conoscenza personale e l'oggettività della conoscenza offerta. La lettura prospettica del soggetto deve riconoscere che l'oggetto della sua conoscenza è sempre più grande di quanto egli possa abbracciare. Proprio questo, però, è condizione di forza della ragione a cui non si può rinunciare senza indebolire irrimediabilmente la ragione stessa.
Con il rimando "all'orizzonte sacramentale" della rivelazione, Giovanni Paolo II tocca un punto di grande forza dimostrativa. Egli pone ancora una volta la ragione dinanzi al mistero, ma per provocarla a scoprirne l'intelligenza che esso racchiude. La ragione, insomma, proprio perché indaga autonomamente il mistero si incontra con i segni che lo esprimono e da essi è spinta ad andare sempre oltre nel tentativo di raggiungere il significato che in sé racchiudono. In un contesto in cui diverse analisi del linguaggio sottolineano il valore del segno senza, comunque, cogliere il valore profondo del suo rimando al significato sotteso, questa dimensione apre un ulteriore spazio di dialogo e di ricerca con il pensiero filosofico.
Il primato che l'enciclica aveva affidato alla Rivelazione fin dal primo capitolo non è andato perduto nel corso della trattazione, tutt'altro. Nel momento in cui Giovanni Paolo II espone le "esigenze" proprie e "irrinunciabili" richieste alla filosofia, queste vengono assunte e mediate dalla Parola di Dio. Le tre esigenze fondamentali che Fides et ratio presenta si collocano nel cuore stesso della rivelazione: la prima ruota intorno alla domanda di senso (n. 80), la seconda consiste nell'appurare "la capacità dell'uomo di giungere alla conoscenza della verità" (n. 82), mentre la terza apre verso l'orizzonte metafisico. Dall'inizio alla fine, pertanto, l'enciclica conserva immutata l'impostazione originaria e raccoglie l'insieme del suo insegnamento intorno al centro della rivelazione di Dio.
Un acuto pensatore ebraico come F. Rosenzweig scriveva nel suo La stella della redenzione che "è il concetto di rivelazione della teologia a gettare quel ponte tra l'estremamente soggettivo e l'estremamente oggettivo". Questo testo è ritornato subito alla mente nel momento in cui avanzava la lettura di Fides et ratio. Giovanni Paolo II con questa enciclica ha realmente gettato un ponte tra la filosofia e la teologia perché entrambe possano riprendere a parlare e dialogare insieme sul tema della verità. È la verità, infatti che la rivelazione porta con sé ed esprime in se stessa. Una verità che entra nella storia dell'umanità non per imporsi in maniera estrinseca, ma per provocare ogni uomo ad entrare nell'intimo di sé e scoprire dove realmente essa alberga. È suggestivo il richiamo che il Santo Padre compie in proposito: "La rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l'ultima possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione. All'uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della verità" (n. 15).
La rivelazione di Dio, pertanto, diventa sintesi e punto di incontro del rispettivo cammino che fede e ragione compiono nel loro indagare e ricercare la verità. In un periodo come il nostro, caratterizzato da una profonda "crisi di senso" (n. 81), Fides et ratio permette di recuperare uno dei dati essenziali del patrimonio comune della teologia e della filosofia: l'universalità della verità e il suo valore salvifico. È questa una conquista che ha visto i cristiani come degli autentici pionieri e sempre in prima fila nella sua difesa. In questo processo nessuna arroganza né alcuna forma di intolleranza può essere imputata al pensiero cristiano. Uno sguardo scevro da precomprensioni di sorta, mostrerebbe con chiarezza l'apporto determinante che il cristianesimo ha posto in essere (cfr. n. 38). Il legame inscindibile tra verità e salvezza ha fatto sì che l'annuncio cristiano fosse sempre e inevitabilmente un annuncio di verità sull'uomo e sulla sua condizione. Non è illudendo l'uomo che lo si potrà liberare dai suoi condizionamenti e dalle sue paure; egli, piuttosto, deve scoprire che la sua libertà è veramente tale solo quando incontra la verità su se stesso. La sua chiamata alla trascendenza e alla comunione di vita con Dio, forma suprema di libertà personale, è possibile però se prende coscienza del proprio peccato e decide per la via della conversione.
Fides et ratio farà discutere, ma rimarrà come una pietra miliare nella storia della dottrina cristiana. La filosofia, da parte sua, se vorrà avere un futuro significativo dovrà uscire dal tunnel di sfiducia in cui ha posto la ragione e guardare all'orizzonte segnato dalla novità radicale che proviene dall'incarnazione del Figlio di Dio. Fede e ragione poste nel cono di luce che proviene dalla rivelazione possono così esprimere coerentemente due scienze - teologia e filosofia - che pur nell'autonomia e autoctonia rispettive, dialogano indagando l'unica verità che porta senso all'esistenza personale. La ragione, dunque, trova nella rivelazione la possibilità di essere veramente se stessa: libera di ricercare la verità, capace di indagarla una volta trovata e audace nell'abbandonarsi ad essa riconoscendo il proprio limite.