La Chiesa e i matrimoni di fatto
Il discorso del Card. Ruini circa il riconoscimento giuridico pubblico delle unioni di fatto ha un duplice pregio: la chiarezza dottrinale e il realismo politico.- Autore:
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Con grande lucidità Ruini ha ricordato che la natura specifica del vincolo matrimoniale non nasce da un’imposizione giuridica o morale, ma è connaturata all’essenza stessa della relazione uomo-donna, che per la definitività dell’alleanza sponsale assume anche un particolare rilievo pubblico riconosciuto esplicitamente dalla Costituzione. Perciò altre forme di convivenza che vogliono assumere solo un carattere “di fatto” non sono equiparabili all’istituto matrimoniale in quanto esprimono un modello di rapporto di tipo privatistico non socialmente impegnativo, in cui (anche stando ai registri delle coppie di fatto) i contraenti non chiedono che lo stato intervenga a porre regole, perché altrimenti la relazione perderebbe il carattere di rapporto privato “a due” libero da ingerenze esterne.
Anche quando si vivono le convivenze “in prova”, o lo si fa in attesa di un matrimonio che definisca meglio il senso del rapporto, o la si subisce perché per difficoltà varie non ci sono le condizioni per la stabilità del vincolo coniugale, oppure proprio perché ci si vuole tenere le mani libere da un legame impegnativo che comporterebbe diritti e doveri verso il partner. In fondo, dietro a queste scelte c’è la non assunzione di responsabilità legata ad un relativismo etico che vorrebbe equiparare tutto, purché nessuno s’intrometta nella sfera degli “affari propri”.
Ma se è chiaro il riferimento al fatto che la famiglia non è paragonabile ad altre forme estemporanee di convivenza, il Card. Ruini non fa mancare neppure un giudizio politico realistico di accusa verso chi in Italia vuole aprire un dibattito di stampo zapaterista mentre le famiglie normali non riescono a costituirsi e a generare figli, anche a causa delle insufficienti politiche familiari:”il sostegno alla famiglia legittima dovrebbe essere la prima e vera preoccupazione dei legislatori”, anche perché questo risolverebbe molte situazioni in cui l’unione di fatto è scelta transitoria di chi non ha ancora le risorse economiche o la possibilità di sostenere il legame stabile del matrimonio.
Il realismo politico della Chiesa sta, invece, nell’indicare un elenco di priorità non in base a calcoli ideologici o elettoralistici, ma pensando a situazioni effettive e reali: dinanzi a famiglie che vivono gravi difficoltà economiche, educative, sociali, sarebbe molto meglio agire con leggi di sostegno ai nuclei familiari prima di pensare a qualcosa che può essere regolato anche “sulla strada del diritto comune”. Perciò non si parte da una moralistica condanna di qualcosa che per la Chiesa è immorale, bensì dal realismo di chi diffida di modelli legislativi precostituiti che riconoscano un diritto assimilabile a quello familiare, creando un matrimonio di serie B con gli stessi diritti-doveri che la Costituzione attribuisce alla famiglia. Se è vero che un certo tipo di convivenza può far contrarre dei debiti di solidarietà e di reciproco aiuto, è altrettanto vero che o si regolarizza tale relazione in senso coniugale con i diritti-doveri connessi, oppure se si intende lasciare tutto allo “stato di fatto” non si possono pretendere patti con valenza obbligante, quando peraltro si possono trovare altre forme societarie di tutela economica del partner (che rimane solamente tale in assenza di una parentela giuridica).
Queste, in sintesi, le indicazione del Presidente dei vescovi italiani, che non si colloca come suggeritore politico, ma come uomo intelligente che, mentre ricorda la verità della famiglia, invita la classe politica a non cavalcare battaglie di retroguardia per fingere di essere moderni.