2025 03 26 NICARAGUA - per celebrare Messa serve il permesso di Ortega
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NIGERIA - Rapito un sacerdote
CONGO RD - Assalita la residenza delle Suore di Santo Domingo a Kinshasa
24 MARZO GIORNATA DI DIGIUNO E PREGHIERA PER I MISSIONARI MARTIRI -
TESTIMONIANZA: “Era Gesù a interessarsi di me, non io di lui”. Addio a Tito Banchong, prete per il popolo del Laos

NICARAGUA - In Nicaragua per celebrare Messa serve il permesso di Ortega
L’ultimo atto della repressione voluta dal regime prevede che i sacerdoti si rechino settimanalmente dalla polizia per ottenere il via libera. Processioni e manifestazioni pubbliche sono già vietate
In Nicaragua, la dittatura di Daniel Ortega e Rosario Murillo stringe sempre più la morsa. In primis contro la Chiesa cattolica, ultimo baluardo di libertà nel Paese, ora sottoposta a un attacco senza precedenti: i sacerdoti devono recarsi settimanalmente alla polizia per ottenere il permesso di celebrare Messa. L’ultima misura di una repressione che non si arresta, ma accelera la persecuzione. Le processioni e le manifestazioni pubbliche della Chiesa cattolica sono proibite, le attività all’interno dei luoghi di culto sono strettamente sorvegliate, e ogni parola dai pulpiti rischia di essere trasformata in un atto di accusa.
Anche le comunità evangeliche non sfuggono alla persecuzione. Nel 2024 si sono registrate 222 violazioni della libertà religiosa, secondo Christian Solidarity Worldwide. Ma la repressione non risparmia nessuno. Giornalisti, attivisti, oppositori politici. Nei giorni scorsi, il governo ha bloccato i tre principali siti di informazione indipendente. E, intanto, il numero di prigionieri politici è aumentato da 47 a 52 tra gennaio e febbraio, con 13 scomparsi. Di questi, 35 sono stati condannati per «tradimento della patria» e 17 attendono il processo.
L’organizzazione “Meccanismo per il riconoscimento delle persone prigioniere politiche” denuncia un’escalation repressiva iniziata con le proteste del 2018 contro la riforma delle pensioni, quando 325 manifestanti furono uccisi e centinaia arrestati. Da allora, il governo ha chiuso Ong, media indipendenti e associazioni civili. Oltre 800.000 nicaraguensi, l’11,9% della popolazione, hanno lasciato il Paese per sfuggire alla persecuzione.
Nel frattempo, il regime ha creato un esercito parallelo di 76.800 “poliziotti volontari” incappucciati, più del doppio degli agenti regolari. Le organizzazioni internazionali denunciano il rischio che queste milizie, come quelle che operavano nel 2018, diventino strumenti di ulteriore repressione e violazioni dei diritti umani. (Avvenire, di Costanza Oliva mercoledì 19 marzo 2025)
NIGERIA - Rapito un sacerdote mentre la polizia ne libera un altro a poche ore dal sequestro
Non si ferma la piaga dei rapimenti di sacerdoti in Nigeria. Padre John Ubaechu, parroco della Holy Family Catholic Church Izombe è stato rapito la sera di domenica 23 marzo.
Il sequestro è avvenuto lungo la strada Ejemekwuru nell’area del governo locale di Oguta nello Stato di Imo, nel sud della Nigeria.
Padre Ubaechu si stava recando al ritiro annuale dei sacerdoti quando è stato rapito.
“Invitiamo tutti i fedeli di Cristo e tutti gli uomini e le donne di buona volontà a pregare intensamente affinché il nostro sacerdote sia liberato al più presto sano e salvo” afferma il comunicato dell’arcidiocesi di Owerri che ha reso noto il rapimento.
“Affidiamo nostro fratello, il Rev. P. John Ubaechu, alla potente intercessione della Beata Vergine Maria Madre dei Sacerdoti, per la sua rapida liberazione dalle mani dei suoi rapitori”.
Sempre domenica 23 marzo, un’operazione di polizia ha permesso la rapida liberazione di un altro sacerdote cattolico che era stato sequestrato poco prima.
Padre Stephen Echezona, era stato rapito in una stazione di servizio a Ichida, nello Stato di Anambra (sud-est della Nigeria). È stato liberato da una squadra di sicurezza congiunta composta da polizia, esercito, difesa civile e gruppi di vigilanza.
In una dichiarazione la polizia locale ha reso noto che padre Echezona è stato tratto sano e salvo nelle prime ore del 23 marzo a Ihiala. Secondo la dichiarazione, i rapitori sono stati costretti ad abbandonare il loro veicolo un SUV bianco senza targa, dopo uno scontro a fuoco con gli agenti della sicurezza, nel quale è stato ritrovato illeso il sacerdote.
Come altri stati del sud-est, i rapimenti a scopo di estorsione nello stato di Anambra sono aumentati di recente. Tra le vittime vi sono dipendenti pubblici, titolari di aziende, politici e persino studenti. (LM) (Agenzia Fides 24/3/2025)
CONGO RD - Assalita la residenza delle Suore di Santo Domingo nel comune di Kimbanseke, a Kinshasa
Assalita la residenza delle Suore della Congregazione di Santo Domingo, situata nel distretto SECOMAF, nel comune di Kimbanseke, a Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo.
I fatti risalgono alla notte tra il 18 e il 19 marzo, quando individui armati di machete e armi da taglio, membri delle bande “Kuluna”, hanno attaccato la residenza delle Suore della Congregazione di Santo Domingo.
Gli aggressori sono entrati in casa sfondando un muro, prima di minacciare le suore e di sequestrare denaro, telefoni, computer e altri oggetti di valore.
“Desideriamo esprimere l’indignazione del Cardinale Fridolin Ambongo, Arcivescovo metropolita di Kinshasa, in seguito all’attacco contro la comunità delle suore della Congregazione di Santo Domingo, situata nel comune di Kimbanseke, nel distretto di Secomaf”, si legge nella dichiarazione firmata da Padre Clet-Clay Manvemba, segretario cancelliere dell’arcidiocesi di Kinshasa. “Il Cardinale esprime la sua vicinanza alle suore vittime di questa barbarie e le incoraggia a resistere, lasciandosi guidare dalla luce della speranza. Colse l’occasione per invitare le varie congregazioni a raddoppiare la vigilanza, senza però cedere al panico o alla paura”.
È stata presentata una denuncia alla polizia contro ignoti, mentre il Vicario giudiziale dell’Arcidiocesi si è recato sul luogo dell’aggressione.
L’assalto pone ancora una volta l’attenzione sull’aumento dell’insicurezza nella capitale congolese, dove le bande criminali continuano regolarmente, prendendo di mira sia i civili sia le istituzioni religiose.
Dal verbo kolona in lingala, che significa “piantare”, “coltivare”, “Kuluna, impiegato per la prima volta negli anni ‘90, per riferirsi ai giovani provenienti da contesti urbani dal sud-ovest della RDC che entravano illegalmente in Angola da nord alla ricerca di diamanti, questo termine è diventato un modo generico per riferirsi ai criminali dal 2000.
Dalle periferie di Kinshasa, dove la polizia non osa avventurarsi, le bande si stanno gradualmente allargando ai distretti centrali e gli accampamenti militari e di polizia, reclutando i loro membri perfino tra i figli degli ufficiali. Da Kinshasa il fenomeno delle bande “Kuluna” si è diffuso puro in altre città. Per contrastare le gang criminali il governo della RDC ha lanciato vaste operazioni di rastrellamento con la cattura di centinaia di presunti criminali, molti dei quali sono stati condannati a morte, dopo che Kinshasa ha reintrodotto la pena capitale. (LM) (Agenzia Fides 21/3/2025)
24 MARZO GIORNATA DI DIGIUNO E PREGHIERA PER I MISSIONARI MARTIRI
Missionari martiri, testimoni di un messaggio che non muore
“Andate ed invitate” è il tema della 33.ma giornata dedicata a chi ha dato la propria vita per diffondere e difendere il Vangelo
Dag Hammarskjöld, premio Nobel per la Pace nel 1961, quasi presagendo la sua tragica fine, aveva scritto nel suo diario: «Se colgono nel segno e uccidono, che c’è da piangere? Altri ti hanno preceduto, altri seguiranno…». C’è una scia di sangue nella storia della Chiesa. Sgorga dalla croce di Cristo ed attraversa i secoli. Ma «sanguis martyrum semen christianorum», come notava Tertulliano. E sant’Óscar Arnulfo Romero y Galdámez (1917-1980), sentendosi minacciato, diceva: «Un obispo morirá, pero la Iglesia de Dios, que es el pueblo, no perecerá jamás» («Un vescovo morirà, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non perirà mai»).
Testimonianze di sangue
Il 24 marzo 1980, mentre celebrava la santa messa, fu assassinato da un tiratore scelto. I mandanti dell’omicidio pensavano di avergli tappato definitivamente la bocca. Invece, la testimonianza di “San Romero delle Americhe”, più incisiva che mai, è come una rosa rossa, fremente d’amore, protesa al cielo, per sempre. Proprio il 24 marzo, nell’anniversario della sua uccisione, si celebra la Giornata dei missionari martiri, che oggi vede la sua trentatreesima edizione. L’iniziativa, infatti, nacque nel 1992, su proposta del Movimento giovanile delle Pontificie opere missionarie, ora Missio giovani. Il tema di quest’anno, “Andate e invitate” (cfr. Matteo, 22,9), è lo stesso proposto da Papa Francesco per la 98.ma Giornata missionaria mondiale 2024.
Invito per tutti
Andate e invitate al banchetto tutti. Gli organizzatori fanno esplicito riferimento alle parole del Santo Padre, nel Messaggio dello scorso 20 ottobre: «la missione è un andare instancabile verso tutta l’umanità per invitarla all’incontro e alla comunione con Dio. Instancabile! Dio, grande nell’amore e ricco di misericordia, è sempre in uscita verso ogni uomo per chiamarlo alla felicità del suo Regno, malgrado l’indifferenza o il rifiuto».
Simboli eloquenti
Il logo scelto per il manifesto della Giornata dei missionari martiri, una fotografia scattata da padre Dario Dozio in un villaggio della Costa d’Avorio, rappresenta appunto la gioia della condivisione, nella semplicità e nell’amore: la frutta e la verdura portate all’altare durante l’offertorio costituiscono l’essenziale per poter continuare il cammino di ogni giorno. Ogni fedele, pur nella sua povertà, ha dato volentieri il suo contributo, proprio come i missionari scelgono di donare la loro vita spezzando la Parola e la quotidianità insieme a chi è dimenticato, oppresso, emarginato. Anche coloro che partecipano alla Giornata, ormai ampiamente radicata nelle diocesi italiane, sono invitati ad offrire un contributo concreto, frutto del digiuno di questa quaresima, per sostenere progetti di assistenza e sviluppo. (…)
Bilanci dolorosi
Dal 2000 al 2024 il totale dei missionari e operatori pastorali uccisi è di 608. Nel 2024 il numero più alto di missionari e operatori pastori uccisi continua ad essere in Africa e in America. Per ciò che riguarda l’Africa, 2 operatori pastorali sono stati assassinati in Burkina Faso; 2 sacerdoti sono periti a colpi di arma da fuoco in Sudafrica; un giornalista cattolico, coordinatore di «Radio Maria-Goma», è stato assassinato nella Repubblica Democratica del Congo e un sacerdote nel Camerun. Per ciò che riguarda l’America, sono stati uccisi 3 sacerdoti (uno in Colombia, uno in Ecuador, uno in Messico) e 2 operatori pastorali (uno in Honduras e uno in Brasile). In Europa, hanno perso la vita per morte violenta un padre francescano spagnolo e un sacerdote polacco.
(Donatella Coalova - Città del Vaticano RV- 24 marzo 2025)
MISSIONARI MARTIRI: TESTIMONIANZA
LAOS - “Era Gesù a interessarsi di me, non io di lui”. Addio a Tito Banchong, prete per il popolo del Laos
“Sono già pronto per Gesù, per essere il suo martire, se sarò degno e se Lui mi vuole. Ormai credo che il tempo sia già tanto vicino”. Così scriveva Tito Banchong Thopanhong, prete laotiano, poco prima che, nel 1976, venisse arrestato dalla polizia dei Pathet Lao.
di Paolo Affatato
Tito Banchong Thopanhong, tra il 1999 e il 2019 Amministratore Apostolico di Luang Prabang, è deceduto a Vientiane il 25 gennaio all’età di 78 anni, consumato da una lunga malattia, dovuta anche agli stenti sofferti da ormai 50 anni. Louis Marie Ling, primo Cardinale laotiano, lo aveva definito “martire a fuoco lento”.
Padre Tito, membro della congregazione degli Oblati di Maria Immacolata, rimase in carcere sette anni. Per tutto il tempo di prigionia di lui non si seppe nulla. In molti pensavano che fosse stato ucciso. Sarà invece rilasciato e potrà riprendere la vita di semplice pastore per la piccola comunità cattolica del Laos, oggi circa 60mila cattolici.
Tito è il nome che Banchong Topagnong ha ricevuto intorno agli 8 anni, quando è stato battezzato, insieme con la sua famiglia, nel villaggio Hmong di Kiukiatan, nel Nord Laos, dove era nato nel 1947. In quello stesso villaggio negli anni ‘57-58 ebbe la grazia di conoscere ed essere tra i ragazzi che seguivano e svolgevano servizio all’altare con padre Mario Borzaga, il missionario che sarà beatificato nel 2016. “Tito ha sempre conservato un prezioso ricordo di quel padre che ha profondamente inciso nella sua vita”, ricorda il confratello Fabio Ciardi, che con lui ha coltivato una profonda amicizia umana e spirituale.
Con i missionari il ragazzo ha l’opportunità di studio e di approfondimento del cammino di fede: in quegli anni, tra il 1958 e il 1969 è alunno dei Seminari prima a Vientiane e poi Luang Prabang. Padre Angelo Pelis, missionario OMI che allora era Direttore del Seminario di Luang Prabang, lo ricorda come “un ragazzo semplice, riservato, mite e sorridente. Il tratto del suo carattere che lo caratterizzerà per tutta la sua esistenza e all’umiltà: un’umiltà tratta dall’esempio di Cristo Gesù”, ricorda a Fides. Il giovane Tito decide di proseguire il suo percorso di formazione con gli Oblati in Italia e nel 1970, Alessandro Staccioli OMI, allora Vicario Apostolico di Luang Prabang, lo manda a studiare in Italia, dove resterà prima a San Giorgio Canavese e poi, dal 1973, a Vermicino (Roma) studiando filosofia e teologia.
Scrive padre Tito in una delle lettere raccolte nel libro “Anche in prigione posso amare” di Michele Zanzucchi: “Ero ancora incerto sulla mia vocazione, ma poco alla volta avvertii sorgere nel mio cuore il desiderio di seguire Gesù in modo radicale, di seguire cioè quel Signore che sembrava desiderare immensamente che io lo amassi. Era lui a interessarsi di me, non io di lui. Mi aveva preso poco alla volta, facendomi capire che in lui avrei sempre trovato il vero senso della mia vita”. Mentre è in Italia, accade il cambio di regime nel suo Paese, con la presa del potere dei guerriglieri comunisti Pathet Lao e nel 1975 tutti i missionari vengono espulsi dal Laos.
Padre Tito avverte un forte richiamo per la sua terra, il richiamo a spendersi per la sua gente, il richiamo ad essere sacerdote per il popolo del Laos, il desiderio di essere testimonianza di Cristo proprio lì e non altrove. Questo spinge Tito a tornare in Laos. “Ho scelto la Chiesa del Laos e sento che Dio mi vuole là e non altrove”, scrive. “Anche se dovrò fare il prete per un solo giorno, io ritorno al Laos”. E ancora: “Ho deciso di ritornare nel Laos, non c’è nessuno per l’’apostolato. Ritorno affinché tutti noi siamo più forti, ritorno per aiutare i credenti. Ritornando ho scelto Dio solo; è Lui che mi fa ritornare ed è per questo che io ritorno”. Lì nella cattedrale di Vientiane viene ordinato sacerdote, il primo di etnia Hmong, il 28 settembre 1975, dalle mani dell’allora Vescovo Mons. Thomas Nantha.
Il giorno dopo scrive: “Ormai non ho più paura perché sono del Signore. Sono pronto a tutto. Sono contentissimo. Nessuno può separarmi da Lui. Ogni giorno scopro sempre più che Lui è con me. Ho Lui. Com’è belle, vero? Mi chiede tutto, gli do tutto”.
Inizia così un servizio pastorale rigidamente controllato e su cui incombe l’arresto, prima a Luang Prabang, poi a Vientiane, infine a Paksane. Gira per i villaggi con la sua moto confortando la gente e amministrando i sacramenti alle famiglie cattoliche.
Pur non avendo mai usato parole critiche nei confronti dei governanti, padre Tito venne incarcerato tre volte, “imparando a trovare anche nelle ristrettezze più crude la tenerezza dell’amore di Dio” ricorda padre Pelis. Sulla sua prigionia racconterà: “Si può dire che i cattivi nella prigione si sono tutti convertiti, sono diventati buoni. Con l’amore si possono anche spaccare i legami dell’odio”. Una volta uscito dal carcere, nessuna lamentela: “Sono stato liberato. Dopo che mi hanno liberato, sono potuto andare a cercare tutti i cristiani nella provincia di Siam e li ho trovati. Tanti che erano ancora lì da più 30 anni che non avevano più nessun prete”, raccontava con gioia.
Nominato “Amministratore apostolico” di Luang Prabang, l’antica capitale, ha vissuto la vita da autentico missionario, dedicandosi con zelo e carità a servire il suo popolo. Nel 2005 comunicava con gioia e fervore all’Agenzia Fides che nel Vicariato di Luang Prabang aveva avuto il permesso di aprire la prima chiesa cattolica nel Laos del Nord dai tempi dolorosi del 1975, dopo la rivoluzione comunista. E si diceva “molto edificato per la fede e la devozione di famiglie locali”. Nel lavoro pastorale procedeva “passo dopo passo, con speranza, per quanto il Signore ci concede”, amava dire. Quella speranza divenne gioia piena quando vide fiorire nella piccola comunità laotiana le prime nuove vocazioni al sacerdozio e quando, nel 2016, partecipò alla liturgia di beatificazione di 17 martiri tra missionari e laici laotiani, uccisi tra il 1954 e il 1970 dai guerriglieri comunisti. Tra i sei Oblati di Maria Immacolata (Omi) beatificati vi era il giovane missionario italiano Mario Borzaga, scomparso nel 1960 a 27 anni, insieme al catechista locale Paolo Thoj Xyooj. Tito li portava stretti al cuore.
(Agenzia Fides 1/2/2025)