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Tolta la scomunica. Perché?

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Si sono sottomessi all’autorità del Papa per una piena comunione

Benedetto XVI ha approvato il Decreto, che porta la firma del cardinale Giovanni Battista Re Prefetto della Congregazione per i vescovi, di revoca della scomunica per i vescovi scismastici Bernard Fellah, Alfonso de Gallareta, Tissier de Mallerais e Richard Williamson, incorsi nella più grave sanzione che può comminare la Chiesa per aver ricevuto l’ordinazione episcopale, il 30 giugno del 1988, senza il permesso del Pontefice dell’epoca, Giovanni Paolo II. La scomunica riguardò anche i due vescovi consacranti, Mons. Marcel Lefebvre (il vero promotore dell’iniziativa, da qui l’appellativo per i suoi chiamati ‘lefebvriani’ e non cattolici) e il brasiliano Antonio de Castro Mayer, entrambi deceduti. I seguaci di quest’ultimo sono già rientrati nella Chiesa Cattolica, così come un gran numero dei cosiddetti ‘lefebvriani’. Così, alcuni mesi fa, gli stessi quattro vescovi, tutti residenti Econe e in Svizzera, avevano scritto al Cardinale Dario Castrillòn Hoyos, Presidente della Commissione ‘Ecclesia Dei’, chiedendogli la possibilità di essere reintegrati in seno alla Chiesa di Roma e il 15 dicembre hanno sottoscritto una dichiarazione di fedeltà cattolica alla Chiesa di Roma. Secondo il Vaticano la “Fraternità” conta 600.000 fedeli, quasi 500 sacerdoti e 300 religiosi e religiose, con oltre 700 istituzioni e luoghi di culto a loro disposizione. La Congregazione per i vescovi indicherà la forma giuridica per inserire nuovamente la ‘Fraternità’ San Pio X’, cui appartengono i prelati scomunicati e perdonati, nella Chiesa. Ma con il decreto di revoca della scomuniche, il Santo Padre spiana la strada alla piena comunione e ricuce una ferita dolorosissima per tutta la Chiesa. I presidenti delle tre Conferenze episcopali più interessate dalla presenza dei cosiddetti lefebvriani sottolineano la grande generosità del gesto compiuto da Benedetto XVI verso la comunità in quanto tale (senza approvare le singole opinioni personali) e auspicano che i vescovi non più scomunicati e in comunione collegiale possano compiere l’ulteriore passo di un’adesione convinta di tutti i loro fedeli presbiteri, consacrati e laici a tutti i documenti del Concilio Vaticano II, approvati anche da Mons. Marcel Lefebvre. “Nella sua decisione – afferma in una nota il presidente dei vescovi svizzeri, Monsignor Kurt Koch –, il Pontefice è stato guidato dalla convinzione che dopo il riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa vi sono buone prospettive che i pendenti colloqui sulle questioni ancora irrisolte dell’eredità vincolante del Consilio Vaticano II possano giungere a buon fine. In questo modo la piena riconciliazione deve trovare la sua visibile espressione nella piena comunione sulla base di una fede comune”. Gli ha fatto eco il presidente della Conferenza episcopale tedesca, Monsignor Robert Zollitsch: “Il Papa mostra la possibilità del ritorno alla piena comunione con la Chiesa Cattolica e non lascia alcun dubbio sul fatto che le conclusioni del Concilio Vaticano II sono un fondamento irrinunciabile per la vita della Chiesa”. Da Parigi, il Cardinale André Vingt-Trois: “Ogni volta che la Chiesa sospende una pena, io me ne rallegro. E’ una opportunità, una porta aperta, per permettere a dei cristiani di ritrovare la pienezza della comunione con la Chiesa. A condizione che essi lo desiderino o l’accettino. E’ un gesto di apertura per fortificare l’unità della Chiesa”.

Ultimo Papa ad avere partecipato in pieno e con passione, come giovanissimo teologo, al Concilio, Benedetto XVI ha delineato nel 2005 l’interpretazione cattolica del Vaticano II per tutta la Chiesa
Il Concilio Vaticano II, come lo sono tutti i Concili, è un avvenimento cioè un dono dello Spirito del Risorto presente nel suo corpo che è la Chiesa che va letto non nella logica di una ‘discontinuità ’ . Assolutizzandolo come assolutizzando altri Concili, lo si isolerebbe dal criterio ecclesiale veritativo che è la Tradizione, ma nella logica della ‘riforma’, lo si apre alla continuità dinamica del futuro. Il Vaticano II non è minimamente messo in discussione dal perdono del Pontefice ai quattro vescovi della “Fraternità”, ai quali ha tolto la scomunica. Il Vaticano II, è un Concilio che come tutti gli altri, deve essere storicizzato e non mitizzato, inseparabile dai suoi testi, che proprio dal punto di vista storico non possono essere contrapposti a un supposto ‘spirito’ del Vaticano II. Rifiutando il Vaticano II si toglie fondamento a tutti gli altri Concili fin da quello di Gerusalemme cioè lo strumento più grande della comunicazione del vero nella vita della Chiesa che è la sua stessa continuità dinamica. Si chiama Tradizione che con il fondamento della Scrittura è la coscienza della comunità che vive ora, attraverso la garanzia magisteriale del suo declinarsi storico. Mezzo secolo fa, proprio il 25 gennaio 1959, l’annuncio del Vaticano II da parte del beato Giovanni XXIII fu una gioiosa sorpresa che di colpo oltrepassò i confini visibili della Chiesa Cattolica. La più vasta assemblea mai celebrata nella storia fu intuita e aperta da un Papa settantottenne, un secolo dopo l’interruzione del Vaticano I (voluto da Pio IX quasi alla stessa età), portando con coraggio alla luce un’idea già ventilata sotto i pontificati di Pio XI e Pio XII. Il declinarsi storico della Chiesa, con la garanzia del magistero ordinario e straordinario, procede dinamicamente senza fratture ma nella continuità della Rivelazione, della Parola di Dio: tutto ciò che la Chiesa ha ricevuto, essa lo trasmette nella sua dottrina, nel suo vissuto fraterno di comunione e nel suo culto o presenza sacramentale del Crocefisso risorto. Non si tratta soltanto di una ‘tradizione scritta o orale’, ma di una tradizione concreta e vivente, che fruttifica durante il tempo, così che conservando la via umana della verità rivelata iniziata con l’incarnazione del Verbo del Padre per opera dello Spirito Santo, essa la attualizza nello Spirito del Risorto presente in lei, secondo i bisogni e le possibilità inedite di ogni epoca. Pur in comunione con i suoi testi è comprensibile una ricezione controversa e non facile, come è avvenuto dopo ogni Concilio, per l’incidenza delle decisioni conciliari nella vita della Chiesa, sottoposte al rischio del libero arbitrio, nella liturgia, nella missione, nei rapporti con le altre confessioni cristiane, l’ebraismo, le altre religioni, con l’affermazione della libertà religiosa a livello di rapporto esistenziale tra religione e politica, nell’atteggiamento verso il mondo contemporaneo moderno e post-moderno. Garanzia illuminante nell’attuale dialettica ecclesiale è stato l’intervento magisteriale di Benedetto XVI alla Curia Romana e quindi a tutta la Chiesa (22 dicembre 2005), che mette in luce il contrasto tra due interpretazioni, quella della discontinuità e quella della continuità. “La Chiesa – aveva affermato il Papa –, è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, Santa, cattolica e apostolica in cammino verso i tempi. Chi si era aspettato che con questo ‘sì ’ fondamentale all’età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’apertura verso il mondo così realizzata trasformasse tutto in armonia, aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell’uomo”. Nella visione del Papa, “questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell’uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un ‘segno di contraddizione’”. E infatti, non è senza motivo se ancora da cardinale Karol Wojtyla aveva dato questo titolo agli Esercizi spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell’uomo. Era invece senz’altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare e inculturare in questo nostro mondo secolarizzato l’esigenza essenziale del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Dunque il passo fatto dal Concilio verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come una ‘apertura verso il mondo’, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede – ragione – amore, che si ripresenta in sempre nuove forme. I problemi della ricezione del Concilio Vaticano II sono nati dal fatto che due interpretazioni contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione. L’altra, silenziosamente, ha portato e porta frutti visibili. Nel rilevare dialetticamente i rischi della prima anche la comunità della “Fraternità” può avere nella Chiesa la legittimità del loro apporto carismatico particolare senza totalizzarlo e senza perdere la fiducia della seconda nella globalità della Chiesa condotta dal successore di Pietro e di tutti i vescovi in comunione con lui. Tra i buoni frutti del Concilio vi è anche il gesto di misericordia nei confronti dei vescovi necessariamente scomunicati nel 1988. Un gesto che sarebbe piaciuto a Giovanni XXIII, a Paolo VI che ha fatto rivedere più volte il Decreto sulla liberà religiosa per venire incontro alle giuste obiezioni di mons. Lefebvre durante il Concilio tanto da portare Lefebvre ad approvare anche la Dignitatis humanae, e che Benedetto XVI, Papa di pace e di comunione, ha voluto rendere pubblica in coincidenza con il cinuqntesimoanniversario dell’annuncio del Vaticano II, con l’intenzione chiara di vedere presto sanata una frattura dolorosa. “Con questo atto (insieme al Motu proprio) – spiega il decreto – si desidera consolidare le reciproche relazioni di fiducia e intensificare e dare stabilità ai rapporti della ‘Fraternità San Pio X’, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del Magistero e dell’autorità del Papa”.

Mons Bernard Fellah, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale san Pio X
Riportiamo l’intervista, pubblicata su Libero del 25 gennaio a pagina 17 con cui il Superiore Generale ringrazia il Papa.
Cosa prova?
“Gioia, soddisfazione. Che non sono sentimenti di una persona che pensa di essere vincitore. Quello che la Fraternità San Pio X ha fatto dalla sua fondazione a oggi, e che continuerà sempre a fare, lo ha fatto e lo farà solo per il bene della Chiesa. Anche le consacrazioni episcopali del 1988 furono fatte a quello scopo. Per il bene della Chiesa e per la nostra sopravvivenza. Monsignor Lefebvre doveva, ripeto doveva, assicurare una continuità. Noi non siamo altro che una piccola scialuppa di salvataggio in un mare in tempesta. Noi siamo sempre stati al servizio della Chiesa e sempre lo saremo. La revoca della scomunica, insieme con il Motu proprio di Papa Benedetto XVI sulla Messa antica, è un segnale importante, davvero importante, per la nostra piccola scialuppa. Per questo parlo di gioia e di soddisfazione”.
Dove e quando ha saputo del decreto?
“L’ho saputo pochi giorni fa a Roma, nell’ufficio di un cardinale, il cardinale Castrillon Hoyos, il presidente della Commissione Ecclesia Dei. Ci siamo abbracciati. Poi, per prima cosa, ho ringraziato la Madonna, questo è un suo regalo. E’ per ottenere la sua intercessione che sono stati messi insieme più di un milione e settecentomila rosari, recitati da fedeli che auspicavano la revoca della scomunica”.
Chi, in Vaticano, ha lavorato di più per giungere a questa soluzione?
“Sicuramente il cardinale Hoyos, che è a capo della Commissione preposta ai rapporti tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X. L’ho capito dalla prima udienza in cui lo incontrai, poco dopo la sua elezione. Pur muovendoci dei rimproveri, il Santo Padre aveva un tono dolce, davvero paterno”.
Nel decreto si dice che il Santo Padre confida nel vostro impegno a “non risparmiare alcuno sforzo per approfondire nei necessari colloqui con le Autorità della Santa Sede le questioni ancora aperte”. Che cosa vuol dire?
“Vuol dire che, come tutti i figli della Chiesa, siamo titolati a discutere delle questioni che riteniamo fondamentali per la fede e per la vita della Chiesa stessa. Credo che questo riconosca quanto meno la serietà della nostra posizione critica su questi ultimi quarant’anni. Noi chiediamo altro che chiarirci. Il fatto che la volontà del Santo Padre vada in questa direzione è veramente di grande conforto. L’importante è che si capisca che, anche nei momenti in cui poniamo delle critiche severe, noi non siamo mai contro la Chiesa, noi non siamo mai contro il papato. E come potremmo farlo? Ci hanno spesso accusato di essere “lefebvriani”, ma noi non siamo “lefebvriani”, benché rimanga per noi un titolo di gloria: noi siamo cattolici. Il primo a non essere lefebvriano è stato il nostro fondatore, monsignor Lefebvre. Quando questo sarà chiaro, si comprenderanno meglio le nostre posizioni. Ci vorrà ancora del tempo, ma credo che poco alla volta sarà chiaro che tutto ciò che facciamo è opera di Chiesa”.
La revoca della scomunica è frutto di una trattativa e di un accordo, o è un atto unilaterale della Santa Sede?
“Noi abbiamo chiesto più volte la libertà nella celebrazione della Messa antica e la revoca della scomunica. Ma ciò che è avvenuto ora non è frutto di una trattativa o di un accordo. E’ un atto gratuito e unilaterale che mostra che Roma ci vuole realmente bene. Un bene vero. Per molto tempo abbiamo avuto l’impressione che Roma non volesse entrare in argomento. Poi, tutto è cambiato e questo lo dobbiamo al Papa”.
Perché Benedetto XVI ha voluto così fortemente questo atto? Si è reso conto del ginepraio in cui si è messo con la revoca della scomunica?
“Oh, sì, credo che sia ben consapevole delle reazioni più diverse e più scomposte. Del resto, a più riprese, prima e dopo la sua elezione pontificale, ha parlato della crisi della Chiesa in termini tutt’altro che ambigui. Quando dicevo della sua dolcezza paterna, intendevo parlare del fatto che in lui traspaiono, insieme, la consapevolezza dei tempi in cui viviamo, la fermezza nel porvi rimedio e l’attenzione a tutti i suoi figli. Questo fa sì che reazioni più o meno scomposte ai suoi atti lo possono far soffrire, ma non certo lo costringono a mutare parere. E qui sta anche il motivo di questa decisione”.
In questo quadro, si potrebbe sintetizzare questa notizia dicendo che la Tradizione non è più scomunicata?
“Sì, anche se ci vorrà del tempo prima che questo concetto diventi moneta comune dentro il mondo cattolico. Fino a oggi, in molti ambienti siamo stati considerati e trattati peggio del diavolo. Tutto ciò che facevamo e che dicevamo doveva essere per forza qualcosa di male. Non credo che la situazione possa cambiare improvvisamente. Ma oggi c’è un atto della Santa Sede che ci autorizza dire che la Tradizione non è scomunicata”.
E che cosa si prova a vivere da scomunicati?
“Si prova dolore per l’utilizzo cattivo e strumentale di un marchio di infamia. Per quanto riguarda la nostra situazione, invece, devo dire che non ci siamo mai sentiti scomunicati, non ci siamo mai sentiti scismatici. Noi ci siamo sempre sentiti parte della Chiesa e la notizia di cui stiamo parlando dimostra che avevamo ragione”.
A questo punto ci si chiede perché tale situazione si sia trascinata così tanto. E soprattutto, di che natura sono le questioni che il documento della Santa Sede e voi stessi dite che devono essere ancora discusse?
“Lo riassumo in poco spazio. A un certo punto, dentro la Chiesa abbiamo visto che si prendeva una strada nuova, secondo noi una strada che avrebbe portato a grandi problemi. Noi non abbiamo fatto altro che pensare, insegnare e praticare ciò che la Chiesa aveva sempre fatto fino a quel momento: niente di più e niente di meno. Non abbiamo inventato nulla. Abbiamo seguito, per l’appunto, la Tradizione. E, oggi, la Tradizione non è più scomunicata”.

Il Concilio, alla luce della Dei Verbum al n. 12, richiede che oltre a tener presente l’unità di tutta la Scrittura si deve tener presente la vita tradizione di tutta la Chiesa e l’analogia della fede poiché la Scrittura non può mai contraddire la totalità oggettiva della fede della Chiesa.
Mai secondo il magistero ordinario e straordinario la Tradizione viva e dinamica di tutta la Chiesa cattolica è stata scomunicata sostituita dalla sola Scrittura. E’ vero però che il connubio fra i due livelli metodologici, quello storico – critico e quello teologico, nell’attuale esegesi accademica è in crisi con gravi conseguenze pastorali. Mentre circa il primo livello l’attuale esegesi accademica lavora a un altissimo livello e ci dona realmente un aiuto perché il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello. “Spesso questo secondo livello – Benedetto XVI di fronte ai padri sinodali il 14 ottobre 2008 –, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla Dei Verbum, appare quasi assente. E questo ha conseguenze gravi”. La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato, senza più la viva tradizione di tutta la Chiesa, Gesù un uomo del passato evangelico, antropologicamente meraviglioso, senza la sua presenza sacramentale di risorto in continuità con tutta la tradizione fino ad oggi. Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro, il Gesù dei Vangeli come tali parlano soltanto del passato originario e l’esegesi diventa pura storiografia, storia della letteratura.
Dove scompare l’approccio della Scrittura nella viva tradizione di tutta la Chiesa scompare l’ermeneutica della fede indicata dalla Dei Verbum e subentra un altro tipo di ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana (la sacramentalità) e si riduce tutto all’elemento umano. “Di conseguenza – sempre Benedetto XVI al Sinodo –si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini (quindi la sacramentalità della Chiesa e dei sacramenti). Oggi il cosi detto mainstream (corrente principale) dell’esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba. La risurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica. Questo avviene perché manca un’ermeneutica della fede: si afferma allora una ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza reale del Divino nella storia”.
Quanto è importante oggi utilizzare tutti con zelo il Compendio e il Catechismo della Chiesa Cattolica in comunione con il Papa e i vescovi uniti a lui.

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