I° settembre. Scuola: la nostra periferia esistenziale
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(Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River)

C’è un’urgenza, nella scuola. Viene prima delle programmazioni dei singoli insegnanti e dei consigli di classe. Prima del POF, dei corsi sui DSA e i BES. Prima dell’organigramma di Istituto, degli IDEI, dei tutoraggi, delle rivendicazioni sindacali. Prima di stabilire obiettivi minimi, competenze, abilità. Prima di organizzare attività scolastiche e extrascolastiche, scambi e stage.
L’avete visto, quest’estate. In pieno jihad alle bambine si insegna come decapitare le bambole, mentre in tivù scorrono le immagini dei tagliateste dell’Isis. E non va meglio in Italia, con i suoi quotidiani rigurgiti di cronaca sanguinolenta. Nella diversità di latitudine e di cultura gli adulti stanno dando alle nuove generazioni un uguale messaggio: la vita non ha valore. C’è o non c’è (più), fa lo stesso.
E i cadaveri dentro e fuori il grembo materno sono diventati abitudine, numeri che si sommano ad altri numeri. Non storie, legami, un passato e un futuro spezzati per sempre, o impediti con la forza. Manichini senza volto, buoni al massimo per le statistiche o per gli studi di sociologia.
E’ questa, su tutte, l’emergenza che devono prendere in carico gli adulti, in famiglia e anche a scuola.
Lo scrivo pensando che i primi giorni di settembre ci si confronterà nei collegi docenti, nelle riunioni di dipartimento, nei consigli di classe. So bene che lì si parlerà di tutto tranne che di questo, e cioè del compito degli educatori di testimoniare il valore la dignità la bellezza che ha sempre ogni vita umana. Senza insegnare stupore e gratitudine per la vita che nessun essere umano si è dato da sé, saranno finti, ideologici, un buco nell’acqua tutti gli interventi contro il bullismo nelle classi e avremo fallito nel compito di aiutare i giovani ad entrare responsabilmente e generativamente nel mondo.
In risposta a questa cultura mortifera, i docenti si impegnino per la costruzione di una cultura della vita e smascherino - argomentando - il finto buonismo di chi pubblicizza la soluzione finale con il kit per la-dolce-morte-fai-da-te, o spaccia per “morale” la soppressione di un bambino Down. Sbandierate da certuni come affermazioni di “buon senso”, sono, queste (ma anche l’indifferenza con cui vengono generalmente accolte), segno di una società che ha scordato ciò che rende umano l’uomo e non sa (più) prendersi cura dei più deboli, fare rete, vivere esperienze di condivisione e di solidarietà.
Per noi insegnanti, periferie esistenziali sono innanzitutto le nostre aule di scuola, in cui al suono della campanella entrano giovani che dai media e dai cattivi maestri assorbono il ritornello che l’animale che inquina il pianeta è l’uomo e dunque è ora di dare una sfoltita. Che gli imperfetti sono destinati ad essere degli infelici ed è bene per loro nemmeno vedere la luce del sole. Che esistono vite degne e non degne e in fondo scegliere a catalogo la qualità del seme o del gamete femminile per l’eterologa (eugenetica posmoderna, ma non si può dire) non è poi così male perché è il progresso, bellezza!
Io insegno italiano e la letteratura ha esempi a bizzeffe per riflettere sulle domande di senso, sulle vite (ritenute) di serie A e di serie B, figuriamoci la storia, l’arte, la filosofia, il diritto, le scienze…. Ancor più delle discipline scolastiche è la quotidianità di ciascuno una miniera di esempi di quante vite scampate a questa cultura dello scarto che va tanto di moda sono invece esistenze ricche, per sé e per gli altri.
Trovino il coraggio da domani, da subito, i docenti, di muoversi in controtendenza, non succubi del pensiero unico, che ha anestetizzato ragione e cuore e, nella società dei desideri al potere, ha ceduto alla logica del più forte.
Queste barche, le nostre classi, in cui si naviga insieme senza essersi scelti, e ci sono alti, bassi, magri, grassi, belli, brutti; di tutte le etnie, culture, religioni; sani, malati, dentro famiglie serene o problematiche, con nonni o parenti o amici disabili o alla fine del cammino della vita, raccontino al mondo che il cuore desidera cose grandi e non si accontenta dei surrogati. Che è possibile ed è bello affrontare la sfida in mare aperto e condividere gioie e fatiche, e imparare a godere insieme della bonaccia, e a fronteggiare insieme le tempeste.
Mozzo e capitano, chi sta al timone e chi si occupa delle vele, chi si dà da fare in cambusa e chi indica la rotta stando seduto; chi pesca e chi racconta dei suoi viaggi; chi, ormai vecchio, suggerisce i trucchi del mestiere… nella vita come in barca, c’è un posto per ciascuno e un compito per tutti. Peccato che quando a tema è la dignità e il valore infinito di ogni vita umana, non sia mai dato vedere che si alza in piedi il papolatra di turno e dica «chi sono io per giudicare» se una vita è degna oppure no. E chissà perché i tanti, tantissimi interventi di papa Francesco su queste tematiche non trovano mai posto nei giornali. Spesso nemmeno negli incontri parrocchiali, o nei media cattolici, o nelle omelie. Non se ne parlerà – statene certi – nemmeno nei collegi docenti, nelle riunioni di dipartimento, nei consigli di classe. Non sono temi politically correct. Mettiamoli, allora, noi docenti cattolici, al punto uno dell’ordine del giorno delle nostre giornate in classe. Li mettano al primo punto del loro ordine del giorno quotidiano gli insegnanti e gli adulti che hanno a cuore l’educazione dei ragazzi. Si parta da qui, testimoniando che la vita è un dono. E che vivere vale la pena, sempre.