“Liberi di morire. Una fine dignitosa nel paese dei diritti negati”
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(F. Cavallari, Il grande campo della vita. Storie da Hospice)

Mani. Mani come strumenti: strumenti di vita e strumenti di morte. Si può scegliere.
Sono strumenti di vita le mani descritte nel bel libro di Fabio Cavallari “Il grande campo della vita”, in cui si racconta di mani che stringono altre mani perché – come ripetono le volontarie dell’Hospice in Columbus del Dipartimento Oncologico H. Sacco – “non accompagniamo nessuno alla morte. Sino a quando si vive si accompagna alla vita”.
Ma le mani possono anche essere strumenti di morte: che essa abbia l’aspetto dell’omicidio, del suicidio assistito, dell’eutanasia. No, eutanasia no. Non va più bene questo termine: l’ha deciso Emma Bonino (che, a proposito di mani – è bene ricordarlo – ha usato le mani, le sue, più una pompa per le biciclette, per aborti fatti in casa…). Lo scrive nella prefazione del pamphlet di Carlo Troilo “Liberi di morire. Una fine dignitosa nel paese dei diritti negati”. “Il suggerimento è quello di non usare più la parola ‘eutanasia’”, afferma la Bonino, “perché essa ha ormai assunto, almeno in Italia, una connotazione negativa e inquietante. Fra le molte espressioni possibili, Troilo sceglie quella che dà il titolo alle leggi delle Comunità autonome dell’Andalusia e della Navarra: la muerte digna, la ‘morte dignitosa’”.
“Morte dignitosa”, dice lei. E’ una grande ipocrisia, questa, scrive invece Cavallari, raccontando tanti incontri ed esperienze all’interno dell’Hospice: “Tutti gli uomini e le donne che hanno deciso di dedicare il loro tempo accanto agli ammalati possono testimoniarlo senza dubbi di sorta. La loro potrebbe essere una voce corale, un pronunciamento ripetuto a voce alta. In dieci anni di Hospice nessuno ha mai sentito dire a un malato terminale che desiderava la morte. Al contrario l’attaccamento alla vita è un istinto insopprimibile anche quando le condizioni sono senza ritorno”.
L’approccio alla malattia e alla morte (che è poi approccio alla vita tutta, perché racconta il valore e il significato che le viene attribuito), nella prefazione della Bonino al libro di Carlo Troilo è completamente diverso, verrebbe da dire rovesciato, rispetto alle modalità in cui i volontari stanno accanto a chi soffre. Così infatti conclude la sua riflessione la leader radicale: “E quando avessimo vinto la nostra battaglia sul testamento biologico e quella per il diritto a una morte dignitosa, non ci considereremmo certo esentati dal dovere di batterci perché lo Stato, la collettività assicurino l’assistenza ai malati che compiano questa diversa scelta (…) quella di affrontare fino alla morte il percorso anche doloroso, anche senza speranza, della propria malattia”.
“Dopo”, in futuro, semmai… Intanto usiamo le mani per scrivere prefazioni e petizioni; per raccogliere firme affinché, con le mani, sia lecito premere il pulsante o staccare la spina anche qui, come nei Paesi (civili, quelli!) in cui l’eutanasia (anzi no, la “morte dignitosa”) è consentita per legge. O le teniamo in tasca, le mani. Certo non le usiamo perché siano di aiuto (ora!) e di conforto (ora!) a chi soffre.
Usano le mani qui ed ora, invece, i volontari dell’Hospice, perché aiutano a “vivere fino alla morte”. E per stare con i malati e le loro famiglie. Per accompagnarli, che significa farsi compagni di strada. Per assisterli c’è bisogno di donare un po’ del proprio tempo; di “sedere accanto” (ad-sistere); c’è bisogno di contatto umano, di anime che si uniscono nella fatica del vivere. C’è bisogno di mettersi in gioco. “Perché tanta dedizione?”, si chiede, ad un certo punto, Cavallari. “Non erano amici, fratelli, non c’erano legami di sangue che li univano. Eppure quella donna si era accostata a lui con la materna dedizione di una madre, la silente premura di un padre, il sorriso amico di un vecchio compagno di strada”.
I lettori ricorderanno la solitudine che, nel novembre scorso, ha accompagnato Lucio Magri nel suo viaggio in Svizzera, l’ultimo: il viaggio della morte. Riporto da Repubblica: “A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo. (…) Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c'è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c'è più”. Magri in Svizzera a morire, gli amici a casa, in piazza del Grillo.
Ecco. Nella società moderna il problema vero sta qui. Come si legge nel saggio di Cavallari “la vera morte dell’uomo è il ‘vuoto’ che si produce attorno alla persona, il formalismo che impedisce di accogliere l’altro come parte della nostra vita (…) L’individuo, ridotto a monade isolata, scisso dai legami con gli altri, finisce per vivere nell’egoismo e questo atteggiamento non fa che rendere sempre più precari e fragili i rapporti umani”.
E’ questa la vera battaglia culturale che interroga tutti e ciascuno.
Che la si chiami “eutanasia”, come se la morte, così, potesse essere “buona”, addomesticata, oppure, come vorrebbero Troilo e la Bonino, “morte dignitosa”, qualunque sia il termine scelto, esso ipocritamente nasconde l’incapacità di ri-conoscere la vita dal concepimento alla fine naturale come bene indisponibile, ed anche l’incapacità di stare di fronte al dolore. Nostro e di chi abbiamo vicino.
Ecco, allora, la vera questione, raccontata in un altro splendido libro di Fabio Cavallari, dal titolo “Vivi. Storie di uomini e donne più forti della malattia” . Lì, Bruno, malato di SLA, con grande chiarezza dice: “A mio avviso certe persone non sanno di cosa parlano. Io sono un perfetto sconosciuto e questa malattia finisce sui giornali solo se si discute di eutanasia e siccome io sono un guerriero della vita non sono mai salito agli onori delle cronache. Voler vivere non fa notizia. In verità è tropo facile parlare per stereotipi senza fare uno sforzo intellettuale per capire che la vita non è solo fare ciò che si vuole e quando si vuole. Le persone sono ormai abituate a vivere secondo uno stile di vita materialistico, in cui non si dà molto valore ai sentimenti. Ho sempre avuto molto amore dai miei familiari e dai miei amici, ma mi sto rendendo conto che da quando la malattia si è impadronita del mio corpo sono subissato di amore e, secondo il mio modesto parere, è la cosa migliore che possa succedere ad una persona. Io sono felicissimo di vivere anche con la SLA. (…) Alle istituzioni chiedo solo di non offendere la nostra dignità, di mantenere le promesse fate in nome del nostro diritto alla vita. A tutto il resto ci pensiamo noi, la mia famiglia, la mia band”.
Questa è la vera battaglia, ed è bene che Bonino & C. rivedano le priorità: va combattuta subito, non come do ut des, “dopo” un’eventuale legge sul testamento biologico e/o sulla “morte dignitosa”. Subito. Perché riguarda tutti i malati e ne tutela la dignità.
C’è bisogno ora, subito, di un serio impegno politico da parte di tutti; di investimenti economici ed umani affinché l’assistenza sia integrale: non al malato, ma anzitutto alla persona, con il controllo e la sedazione del dolore, e con l’offerta di una presenza che sia capace di diventare compagnia all’altro per tutto il tempo che la vita gli concede. Solo in questo modo, la fine, quando arriverà, potrà dirsi davvero “dignitosa”.