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Anche noi in quell'abbraccio

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Non c’è volto che non risponda al desiderio di una mano; non c’è mano che non sia attirata dal desiderio di un volto».
(Edmond Jabès)

Ha colpito il mondo, il gesto di Papa Francesco, che martedì è sceso dall’auto bianca e si è accostato a Cesare Cicconi, tetraplegico da quando aveva otto mesi. Hanno ripreso la scena le tivù di tutto il pianeta, l’hanno raccontata i giornali. Il video rimbalza in rete.
Ho letto i resoconti e i commenti, ma mancava sempre qualcosa.
Quel gesto non è gossip. Lo capisce solo chi lo vive, perché è incontro, relazione. Carne che tocca altra carne. Non un punto nell’agenda del Papa, non filantropia, non rispetto del codice etico.
E allora ho provato a immaginarmi lì, in piazza San Pietro. Lì, paralizzata dalle mie paralisi. Lì, fra migliaia un puntino.
Il Santo Padre che fa fermare la papamobile perché ha visto me, il niente che sono. Da Cesare, da me è venuto ed è su di lui, su di me che ha posato lo sguardo. E la mano.
Ultimi degli ultimi lui ed io, in quello sguardo, in quella carezza abbiamo scorto il segno dell’Amore che sempre ci precede: infinito, immeritato. Gratuito. In lui, Cecé: in questo cinquantenne disabile, tutti noi «dis-abili» siamo stati accolti, abbracciati, com-presi. Amati.
Per come siamo? Sì. Per come siamo. Perché lo stesso giorno Papa Francesco ha salutato i potenti del mondo. Loro sono andati da lui, come i Magi dal Bambinello. Lui, il «dolce Cristo in Terra» è sceso dall’auto e si è accostato a un debole e, in lui, a noi: deboli di altre debolezze visibili o peggiori, perché nascoste.
Questo, ha fatto Cristo: si è inginocchiato e ha lavato i piedi agli apostoli. Questo fa la Chiesa da allora, nelle sue opere di carità. Nella sua attenzione agli ultimi. Nella strenua difesa della dignità della vita sempre: da quella quasi invisibile del concepito, al disabile, al carcerato, al malato terminale…
Non sciorinando tesi antitesi sintesi. Non filosofeggiando. Non con i proclami. Sono uomini e donne afferrati da Cristo che da Lui hanno imparato a stare accanto alle madri in difficoltà, ai bambini rifiutati, a chi soffre. Alle vite considerate non degne, ai detenuti scartati dalla società. Lo stesso gesto di Papa Francesco. Di tutti i Papi che l’hanno preceduto (ma dov’erano i giornalisti, allora, se han descritto come una novità la carezza di Papa Francesco… e si son perse le altre…?).
Ero in piazza San Pietro, martedì. Questo solo mi permette di entrare nella grandezza di questo gesto. Di viverlo. Di sentire, in quella carezza, la carezza del Nazareno.
Io l’ho provata, la provo ogni giorno quella carezza. Sana le ferite del corpo e dell’anima, allevia il dolore indicibile della solitudine. Dice ti amo, figlio prediletto. In te mi sono compiaciuto.
In Cesare? In me, ultima degli ultimi? In quel bimbo, abortito oggi e gettato oggi nel cestino di un bar al Circo Massimo? Nei giovani carcerati che Papa Francesco incontrerà giovedì?
Unici e irripetibili ai suoi occhi, ci scorge tra migliaia. Scende dall’auto, Papa Francesco. Varca il cancello della prigione. Ha pietà del nostro niente: puntini nella piazza e nella vita.
E’ salito in croce, Cristo: il più bello dei figli dell’Uomo. E poi è risorto.
Per Cesare, per me. Per i giovani reclusi di Casal del Marmo. Per quel bimbo rifiutato. Lacrime del Cielo. Sorriso nel Suo sorriso.

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