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“L’ultima creatura. L’idea divina del femminile”

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Quando pretendo che la trascendenza si trovi nelle nostre mutande, mi sforzo di essere serissimo. In questo caso sono molto fedele alla Bibbia. Di una fedeltà letterale. Che cosa dice l’inizio del libro della Genesi? Dio creò l’uomo a sua immagine. Maschio e femmina li creò (Gn 1, 27). In altri termini, se bisogna prestar fede a questa parola, l’immagine di Dio si trova nella differenza dei sessi. Confesso che da solo non ci sarei arrivato. Evidentemente, avrei cercato lo spirituale nello spirituale, non nel carnale. Avrei pensato che l’anima la si eleva liberandola dal corpo – e tanto più dal corpo sessuato. Bisognava che la parola di Dio ci rivelasse come mistero quel che avremmo potuto prendere come una grossolanità bestiale. Parola di un Dio ebreo, cioè di un Dio che ha il senso dello humour».
(Fabrice Hadjadj, Ma che cos’è una famiglia, Edizioni Ares)

C’è più di un motivo, in quest’ultimo scampolo di estate, per regalarsi una giornata a Illegio, piccolo borgo di 360 abitanti, incastonato tra i monti della Carnia. Il 4 ottobre chiuderà la mostra “L’ultima creatura. L’idea divina del femminile” e, fidatevi, sarebbe un peccato perderla.
Il percorso propone opere attinte da una trentina di musei (dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia agli Uffizi, dalla quadreria del Quirinale ai Vaticani) e, ripercorrendo l’Antico Testamento, racconta, con tele e sculture dal XV al XX secolo, la storia sacra al femminile. Accanto al celeberrimo Giuditta e Oloferne di Caravaggio, una quarantina di opere a firma di Pinturicchio e Palma il Giovane, Gentileschi e Rubens, Ricci e Piazzetta, fino ai novecenteschi Messina e Spadini.
Ha una storia, Illegio, che vale la pena ricordare. Grazie all’attivissimo Comitato di San Floriano, questo piccolo paese in provincia di Udine si è fatto conoscere negli anni per una dozzina di mostre in loco e sette straordinarie (a Bruxelles, nei Musei Vaticani, a Roma per l’Anno della fede…), per la stampa di 16 libri di arte e di storia, per un Cd sul patrimonio musicale liturgico di tradizione orale e per una serie di eventi culturali di rilievo, segno che l’incontro tra fede e bellezza dà frutto ovunque, anche dove non avresti scommesso un euro.
Quest’anno il tema è caldo e il titolo tutto un programma. Bene farebbero, dunque, coloro che (anche nel mondo cattolico) vanno blaterando che la Chiesa è misogina, ad andare a Illegio per rispolverare un po’ della nostra storia, una volta tanto non storpiata da quelle supervisioni laiciste che van tanto di moda.
Nelle sezioni della mostra si parla delle “donne di Dio”: da Eva a Maria, passando per Sara, Rebecca, Rachele, Tamar, Miriam, Debora, Giaele, Dalila, Betsabea, Ruth, Ester, Giuditta.
Bellissima l’introduzione, dal titolo “Sterili e madri”. E’ da lì che prende il via il percorso: quanto indicato nel pannello d’ingresso indica il criterio con cui accostarsi a tutte le opere. Sentite. «Come leggiamo nel primo racconto della creazione, “Dio creò la umanità (’Elohim barà ha ’adam: si noti l’articolo ha) a sua immagine (selem), a immagine di Dio la creò (’oto barà: singolare); maschio e femmina li creò (’otam barà: plurale)”. Di conseguenza, in quella pagina biblica non solo il maschio ma l’umanità tutta, nella sua polarità maschile e femminile, è icona di Dio sulla terra. Due modalità di una stessa realtà, l’uomo e la donna, sono imago Dei nel loro congiungersi in una relazione d’amore». E ancora: «Ma immediatamente si deve notare un’altra meraviglia rivelata in Genesi 1: l’unità dei due è chiamata a superarsi nella procreazione e nella custodia del mondo e di ogni creatura. Infatti, alla coppia delle origini Dio ordina “siate fecondi e dominate la terra”, per cui l’immagine divina originaria non è nemmeno la coppia congiunta nell’amore, ma la triade che dalla coppia vede scaturire la vita di altri e la cura per la vita di ogni altro. Fin dall’inizio, dunque, la Trinità si riflette nella struttura originaria dell’umano. Al contrario, l’assolutizzazione separata degli individui, che tendono a strumentalizzarsi o a sopraffarsi gli uni gli altri, è l’effetto del peccato originale, il rovescio del progetto divino». Da prendere appunti e portarli a casa, come giudizio sul presente e l’odierna rivoluzione antropologica in salsa gender, spacciata per progresso. Ma andiamo avanti.
Le opere dedicate all’episodio di Giuditta e Oloferne raccontano l’audacia della fede. A rappresentarla, ancora una volta, una donna. Questa, in sintesi, la vicenda. Il libro di Giuditta riferisce di un temibile esercito inviato da Nabucodonosor a conquistare Israele. Guidata da Oloferne, l’armata nemica è pronta ad impadronirsi della città di Betulia, tra la disperazione degli abitanti che, ritenendo inutile ogni resistenza, chiedono ai capi di arrendersi. Ma agli anziani della città, che, in assenza di aiuti immediati, si dichiarano pronti a consegnare Betulia al nemico, Giuditta rimprovera la mancanza di fede, professando piena fiducia nella salvezza che viene dal Signore. Dopo aver a lungo invocato Dio, lei che è simbolo della fedeltà a Dio, dell’umile preghiera e della volontà di mantenersi casta, si reca presso Oloferne, il generale nemico, superbo, idolatra e dissoluto. Fingendo di esserne sedotta e di volerlo sedurre, rimasta sola con lui ubriaco e incapace di resistere al sonno, Giuditta, prima di colpirlo, si rivolge a Dio dicendo: “Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento” (Gdt 13, 7). Poi, presa la scimitarra di Oloferne, gli taglia la testa.
Forza e grazia caratterizzano la sua azione, che va letta nella sua storicità e pure nel suo senso figurale. Illuminante, a questo proposito, proprio l’opera caravaggesca. Possibile che una donna trovasse tanta forza da mozzare con quei colpi il collo di un potente guerriero? «Caravaggio risponde di sì, facendo vedere come i colpi furono inferti; e spiega anche come mai, lo spiega con la luce violenta che irrompe nella scena e con l’espressione sul volto della donna. Giuditta stessa appare sconcertata dal proprio gesto. A differenza della vecchia, che spinge gli occhi verso lo spettacolo raccapricciante, ella quasi si ritrae, un moto di orrore le imbroncia il volto teso, perfetto, mentre affonda l’affilatissima lama con gesto privo di ogni contrassegno esteriore di forza. Non è lei, in realtà, che taglia la testa di Oloferne. Il simbolo si decodifica chiaramente: nulla potremmo con le nostre sole forze, senza la grazia di Dio. Ma nulla compie la grazia di Dio in noi, senza la nostra piena e libera cooperazione». Oggi come allora, aggiungo io.
Ma c’è un altro motivo per andare a visitare la mostra a Illegio in quest’epoca che esalta
estetismo ed edonismo e non sa guardare al fondo, non sa s-velare la bellezza interiore.
Le raffigurazioni di Giaele, Dalila e Betsabea sono infatti occasione per meditare sul potere seduttivo della bellezza sensibile e dunque dell’arte stessa. «E’ la bellezza a cingere d’assedio le facoltà dell’anima umana, fino a sequestrare e stordire. Quelle donne sono figure che rappresentano, insieme agli episodi biblici correlativi, l’ambiguità della bellezza sensibile, del corteggiamento che essa perpetra nei confronti dei sensi umani e della misteriosa potenza con cui essa tradisce la vigilanza dell’uomo trascinandolo a cedere alle sue malìe: bellezza che si tramuta in tranello dei sensi, eccitazione degli appetiti, gioco di appagamento, frivolo sortilegio».
Le tele esposte invitano a una riflessione sul sensibile e lo spirituale, per cui il percorso tra le sale si rivela una splendida educazione dello sguardo, ed è lo sguardo del giovane Daniele, contrapposto all’occhio bramoso dei vecchioni.
«Per cogliere la bellezza autentica si deve saper vedere. I vecchioni libidinosi che vorrebbero avventarsi sull’inerme Susanna colgono della sua bellezza il solo guscio esteriore, mostrando nella loro morale deformità la propria autentica bruttezza. La bellezza vera, invece, è casta, cioè esiste come lode e irradiazione di bene, mai come preda e bottino: sarà lo sguardo innocente e spiritualmente illuminato di un ragazzo, il giovanissimo profeta Daniele, a riconoscere Susanna e la limpidezza indubitabile del suo cuore, che ai due vecchi restava del tutto sconosciuta».
Splendida la conclusione della mostra, che invita a interrogarsi sul titolo “L’idea divina del femminile”.
Perché Dio sceglie di passare, nei momenti decisivi della rivelazione, attraverso la storia di alcune donne e sceglie di plasmare la donna stessa come ultimo atto della creazione? Perché proprio lei è l’ultima creatura?
«Con l’apparizione del femminile ci viene manifestato l’intento sublime del Creatore, che volle la donna davanti a sé e davanti al maschile per indicarci chi siamo noi e dove Lui intenda arrivare. Grazie alla rivelazione biblica riconosciamo nella donna la versione dell’umano in cui si fa particolarmente evidente il progetto divino. La donna è infatti il segno concreto che l’essere umano è fatto per prendersi cura dell’altro e per aprirsi all’Altro. Tanto per la sua struttura biologica e fisiologica quanto per la sua propensione a ciò che è nobile e raffinato, la donna manifesta che la vocazione dell’umano non è l’affermazione di sé e la preoccupazione per i propri appetiti, ma la dedizione di sé nell’amore e la partecipazione a un “ordine superiore” che esige cura per l’interiorità e per ogni possibile finezza, sino a quella della relazione con Dio».
Vengano a Illegio i propugnatori del gender, dell’identità fluida! Qui si capisce bene che la differenza “data” e irriducibile tra maschio e femmina è un’indicazione sul destino dell’umano. L’ultima creatura che la Genesi fa entrare in scena è una donna, e l’ultima voce che risuona nella Sacra Scrittura, nell’Apocalisse, è di donna: è la voce della Chiesa, sposa di Dio, che invoca il suo divino Consorte. Dio vuole sposarci. Perciò volle che l’uomo portasse in sé, nella sua struttura, la polarità del maschile e del femminile, missione scritta nella carne che punta alla vita dello Spirito.
E se questa bella mostra non dovesse bastare a convincere i più scettici sull’idea divina del femminile, prima o dopo Illegio sarà bene andare a vedere la storia delle tante donne che sono diventate Dottori della Chiesa e riprendere in mano le encicliche. La Mulieris dignitatem, tanto per fare un esempio. O le Lettere alle donne scritte dai Pontefici. Ma questo è un altro articolo.

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