#JeSuisCharlie: il diritto del più forte non è mai vero diritto
- Autore:

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato le decisioni prese dai tribunali britannici: si possono sospendere le cure a cui finora è stato sottoposto il piccolo Charlie Gard per mantenerlo in vita.
Charlie ha una rara malattia genetica, la sindrome di deperimento mitocondriale, che provoca il progressivo indebolimento dei muscoli e che lo costringe a vivere in terapia intensiva con l’ausilio di sostentamenti vitali. Secondo i medici non ha speranze di sopravvivere a lungo. Ma è vivo. I genitori vorrebbero sottoporlo a una terapia sperimentale a loro spese.
I giudici inglesi e quelli della CEDU hanno deciso (loro) che sarebbe un danno per Charlie farlo continuare a vivere.
Il piccolo Charlie pone un grande interrogativo alla nostra ormai smarrita umanità.
Nessuno dovrebbe decidere della morte o della vita di un’altra persona. Ma qui il problema è ancor più radicale.
Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto ultimo di qualificare la vita umana di un’altra persona, di qualunque tipo o in qualunque situazione essa sia, un danno per se stessa, ossia per il solo fatto di essere così come è fatta. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di qualificare un danno il fatto di esistere in un certo modo. I giudici inglesi hanno detto che Charlie è un danno per se stesso ed è meglio eliminarlo.
Per il suo bene. Ma il suo bene l’hanno deciso loro. E il fatto che Charlie fosse una vita difettosa e dannosa per se stessa, tanto da esserne preferibile la soppressione fisica, l’hanno deciso loro!
1. Primo problema posto da Charlie. Se permettiamo a qualcuno di decidere quando una vita è solo un danno da eliminare, dobbiamo anche permettere a quella stessa persona di avere l’esclusiva della vita stessa. Deleghiamo così a qualcuno il potere di scegliere i criteri per stabilire in quali modi una vita può essere vissuta e in quali modi invece è solo un danno da impedire e da eliminare come tale.
Probabilmente è un film già visto. La storia ci ha già raccontato le conseguenze disastrose che potrebbe portare tale delega ... ma abbiamo la memoria corta.
2. Secondo problema posto dal piccolo Charlie.
Fino a poco tempo fa si diceva che il bene della vita è indisponibile. Anche se oggi non lo si dice più, continua a essere vero.
Ma abbiamo subito un vero e proprio lavaggio del cervello sul fatto che, in certi casi “particolari”, “estremi”, “irreversibili” (perché l’alluvione comincia sempre da una piccola crepa nella diga), si possa disporre del bene della vita chiedendo che lo stato intervenga a sopprimerla, in caso di autodeterminazione della persona, ossia quando la persona decida liberamente e senza condizionamenti esterni di non voler più vivere. In tal caso, anche ipotesi di eutanasia sarebbero legittimate da un’esplicita richiesta in tal senso.
Orbene, dov’è nella vicenda del piccolo Charlie quella richiesta espressa e libera da condizionamenti, quella chiara autodeterminazione che legittimerebbe la soppressione di una vita per quanto precaria sia?
Non c’è. Non c’è neppure quella volontà espressa dagli unici che in qualche modo avrebbero potuta esprimerla, i suoi genitori.
Qui lo stato sostituisce la propria volontà a quella dei genitori, in decisioni letteralmente vitali per un figlio. E questo è umanamente assurdo. Lo stato deve essere per la persona e non viceversa.
Qui si leva tutto il velo di ipocrisia della nuova dittatura dei diritti e del pensiero unico del politicamente corretto.
3. Il piccolo Charlie ci interroga umanamente anche sotto altro aspetto.
La CEDU, chiamata in causa dai genitori per impedire che i tribunali britannici eseguissero la loro sentenza, si è chiamata fuori, dicendo che, in queste vicende di “fine vita” o comunque comportanti problemi etici, i singoli Stati possono organizzarsi come meglio credono. In sostanza, ha ritenuto che non esiste un diritto di Charlie di continuare a vivere in quella situazione e di ricevere le cure sperimentali che i genitori avrebbero voluto tentare negli USA a loro spese. Infatti, se avesse riconosciuto questo diritto umano, avrebbe dovuto affermarlo anche contro le legislazioni dei singoli Stati. È proprio questo il significato dei diritti dell’uomo: individuare un nucleo di esigenze imprescindibili talmente connesse alla stessa persona umana, da non poter soffrire alcuna riduzione o limitazione da parte delle leggi dei singoli Paese (che ne dovrebbe essere impedita).
La CEDU ha dunque concluso che non esisterebbe un diritto del piccolo Charlie.
Ma poniamoci per un attimo un’altra domanda. Cambiamo ottica.
In questa vicenda, allora, il diritto di chi è stato tutelato e garantito? Qual è il diritto affermato e a chi appartiene?
Non è stato fatto valere un diritto del piccolo Charlie: neppure un suo diritto a morire (se esistesse, ma non esiste), che presupporrebbe comunque una decisione in tal senso da parte dell’interessato. Quel diritto non appartiene a Charlie. Anzi. Nel suo stesso esistere in quel modo è stato riconosciuto un danno, non un diritto, per cui - si è detto - meglio sopprimerlo. Ma meglio per chi? Non per Charlie, che ovviamente non l’ha chiesto e non l’hanno chiesto neppure i suoi genitori.
Non è stato fatto valere un diritto dei genitori, che volevano accudire Charlie, e non hanno chiesto di farlo morire ma volevano fare tutto il possibile per trovare altre cure, nel frattempo condividendo amorevolmente quel pezzo di strada che il mistero ha dato l’opportunità a Charlie di vivere.
Non è stato fatto valere un diritto (presunto tale) di una comunità che non vuole farsi carico di spese inutili, perché la famiglia avrebbe pensato alle spese per le ulteriori cure.
I diritti di chi sono stati fatti valere in questo caso?
Probabilmente l’unico diritto affermato nella storia del piccolo Charlie è il diritto del più forte, di uno stato che si arroga il diritto di decidere chi è l’uomo, che non ha tempo, voglia o interesse di occuparsi dei più piccoli e indifesi, preferendo sopprimerli piuttosto che prendersi cura di loro, secondo quella “cultura dello scarto”, da cui ci ha messo in guardia papa Francesco (e che non è rilevante solo dal punto di vista economico, ma soprattutto da quello antropologico).
E il diritto del più forte non è mai vero diritto.