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Lo «scomodo» diritto alla vita

Fonte:
CulturaCattolica.it
S. Giovanni Paolo II ci ricorda il valore della vita, e introduce in maniera forte il dovuto rispetto alla donna. Parole che chiamano alla responsabilità di ogni uomo.

Domanda: Tra i diritti «scomodi» cui accenna, sta, in primissimo piano, il diritto alla vita; sta il dovere della sua difesa sin dal concepimento. Anche questo è un tema sempre ricorrente - e con toni drammatici - nel Suo magistero. Questa continua denuncia di ogni legalizzazione dell’aborto è stata definita addirittura «ossessiva» da parte di certi schieramenti politico-culturali. Sono quelli che sostengono che le «ragioni umanitarie» starebbero dalla loro parte; da quella, cioè, che ha condotto i parlamenti a leggi permissive sull’interruzione della gravidanza.

Risposta: Il diritto alla vita è, per l’uomo, il diritto fondamentale. Eppure, una certa cultura contemporanea ha voluto negarlo, trasformandolo in un diritto «scomodo», da difendere. Ma non ce n’è nessun altro che tocchi più da vicino l’esistenza stessa della persona! Diritto alla vita significa diritto a venire alla luce e, poi, a perseverare nell’esistenza fino al suo naturale estinguersi: «Finché vivo ho diritto di vivere».
La questione del bambino concepito e non nato è un problema particolarmente delicato, eppure chiaro. La legalizzazione dell’interruzione di gravidanza non è nient’altro che l’autorizzazione data all’uomo adulto, con l’avallo della legge istituita, a privare della vita l’uomo non nato e, perciò, incapace di difendersi. È difficile pensare a una situazione più ingiusta, ed è davvero difficile parlare qui di «ossessione», dal momento che entra in gioco un fondamentale imperativo di ogni coscienza retta: la difesa, cioè, del diritto alla vita di un essere umano innocente e inerme.

Spesso la questione viene presentata come diritto della donna a una libera scelta nei riguardi della vita che già esiste in lei, che già porta nel grembo: la donna dovrebbe avere il diritto di scegliere tra il dare la vita e il togliere la vita al bambino concepito. Ciascuno può vedere che questa è un’alternativa solo apparente. Non si può parlare di diritto di scelta quando è in questione un chiaro male morale, quando si tratta semplicemente del comandamento: «Non uccidere!»
Questo comandamento prevede forse qualche eccezione? La risposta di per sé è «no»; giacché persino l’ipotesi della legittima difesa, che non riguarda mai un innocente ma sempre e solo un aggressore ingiusto, deve rispettare il principio che i moralisti qualificano come principium inculpatae tutelae (principio di una difesa irreprensibile): per essere legittima, quella «difesa» deve essere attuata in modo che arrechi il minor danno e, se possibile, risparmi la vita all’aggressore.
Il caso di un bambino non nato non rientra in tale situazione. Un bambino concepito nel seno della madre non è mai un aggressore ingiusto, è un essere indifeso che attende di essere accolto e aiutato.

È doveroso riconoscere che, in questo campo, siamo testimoni di vere tragedie umane. Molte volte la donna è vittima dell’egoismo maschile, nel senso che l’uomo, il quale ha contribuito al concepimento della nuova vita, non vuole poi farsene carico e ne riversa la responsabilità sulla donna, come se lei fosse la sola «colpevole». Così, proprio quando la donna ha il massimo bisogno del sostegno dell’uomo, questi si dimostra un cinico egoista, capace di sfruttarne l’affetto o la debolezza, ma refrattario a ogni senso di responsabilità per il proprio atto. Sono problemi che ben conoscono non solo i confessionali, ma anche i tribunali di tutto il mondo e, oggi sempre più, anche i tribunali dei minori.
Dunque, respingendo fermamente la formula «pro choice» (per la scelta), occorre schierarsi con coraggio per la formula «pro woman» (per la donna), cioè per una scelta che sia veramente a favore della donna. È proprio lei, infatti, a pagare il più alto prezzo non soltanto per la sua maternità, ma ancor più per la distruzione di essa, cioè per la soppressione della vita del bambino concepito. L’unico atteggiamento onesto, in questo caso, è quello della radicale solidarietà con la donna. Non è lecito lasciarla sola. Le esperienze di vari consultori dimostrano che la donna non vuole sopprimere la vita del bambino che porta in sé. Se viene confortata in questo atteggiamento, e se contemporaneamente viene liberata dall’intimidazione dell’ambiente circostante, allora è capace persino di eroismo. Lo testimoniano, dicevo, numerosi consultori, e soprattutto le case per ragazze madri. Sembra, quindi, che la mentalità della società cominci a maturare nella giusta direzione, anche se sono ancora numerosi quei sedicenti «benefattori» che pretenderebbero di aiutare la donna liberandola dalla prospettiva della maternità.

Ci troviamo qui a un passaggio, per così dire, nevralgico, sia dal punto di vista dei diritti dell’uomo, sia da quello della morale o della pastorale. Tutti questi aspetti sono strettamente uniti tra loro. Li ho trovati sempre insieme anche nella mia vita e nel mio ministero di sacerdote, di vescovo diocesano e poi di Successore di Pietro, con l’ambito di responsabilità che ne consegue.

Perciò, devo ripetere che respingo categoricamente ogni accusa o sospetto riguardante una presunta «ossessione» del Papa in questo campo. Si tratta di un problema di enorme portata, nel quale tutti dobbiamo dimostrare la massima responsabilità e vigilanza. Non possiamo permetterci forme di permissivismo, che porterebbero direttamente al conculcamento dei diritti dell’uomo, e anche all’annientamento di valori fondamentali non soltanto per la vita delle singole persone o delle famiglie, ma per la stessa società. Non è forse una triste verità ciò a cui s’allude con la forte espressione: civiltà della morte?
(Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, pp. 222- 225)

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