2023 06 28 Condannato a 26 anni mons. Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa: NON DIMENTICHIAMO
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TESTIMONIANZE: Cristiani in Medio Oriente (dopo il terremoto ad Antiochia; Libano)
PER NON DIMENTICARE: NIGERIA E NICARAGUA
PAKISTAN - Denunciò il tentato stupro della figlia, cristiano finisce in galera
L’ennesimo episodio di discriminazione da parte della polizia a Khanewal, città della provincia del Punjab. L’uomo è stato accusato dalla famiglia dello stupratore di un furto mai commesso
Accusato di furto dopo avere difeso la figlia da un tentativo di stupro, il cristiano Mumtaz Masih si trova in cella da due settimane a Khanewal, città della provincia del Punjab pachistano. La mattina del 10 giugno la figlia Samreen era stata accompagnata dalla madre davanti all’abitazione dove lavorava come domestica e sulla via del ritorno, nonostante fosse scortata da una zia, era stata fermata da un dipendente dell’hotel davanti a cui stavano transitando. L’uomo, un musulmano di nome Waseem, aveva cercato di trascinarla all’interno per abusarne, ma davanti alla sua resistenza l’aveva picchiata fino a quando non erano intervenuti alcuni passanti che avevano costretto l’uomo a lasciarla andare.
Il tentativo del padre della ragazza di chiarire la vicenda discutendone con Waseem era finito con minacce all’uomo e agli altri membri della famiglia che erano con lui. Portato in commissariato, nonostante le accuse di aggressione e di tentata violenza sessuale della famiglia che aveva chiesto l’arresto, Waseem era stato rilasciato poche ore dopo. In custodia sono invece finiti Mumtaz Masih e gli altri parenti che l’avevano accompagnato dalla polizia per sporgere la denuncia. Contro di loro è stata aperta un’indagine perché accusati di essere entrati armati nell’hotel, di avere picchiato Waseem e per il furto di una somma equivalente a 550 euro.
Samreen è l’unica di sei fratelli e sorelle a vivere ancora con i genitori perché non sposata. Il padre è venditore ambulante in una stazione degli autobus e la povertà della famiglia costringe la ragazza a lavorare come domestica, una attività che espone molte giovani donne delle minoranze al rischio di abusi. (Stefano Vecchia sabato 24 giugno 2023 Avvenire)
I CRISTIANI IN MEDIO ORIENTE: DUE TESTIMONIANZE
TURCHIA - Vicario d’Anatolia: nel dopo-terremoto la comunità cristiana ‘a forte rischio’
Mons. Bizzeti racconta una situazione generale di “grande disperazione” e di forte bisogno, i fedeli rimasti ad Antiochia si contano “sulle dita di due mani”. Alla Chiesa in Occidente il compito di ricordare a governi e istituzioni il dovere di “salvaguardare” la presenza dei cristiani. Gli interventi in atto della Caritas e i programmi di lungo periodo, fra cui scolarizzazione e sostegno psicologico.
La comunità cristiana delle zone colpite dal sisma “è a forte rischio”, per una situazione generale di “grande disperazione”: i fedeli rimasti ad Antiochia, cuore della devastazione, si contano “sulle dita di due mani” e oltre alle necessità quotidiane vi è da ricostruire un tessuto sociale “partendo dalla casa, dalla scuola e dal lavoro” perché “in caso contrario le persone se ne vanno”. È quanto racconta ad AsiaNews mons. Paolo Bizzeti, vicario d’Anatolia, regione che ancora oggi, a oltre quattro mesi, mostra le devastanti ferite inferte dal drammatico terremoto del 6 febbraio. Dal 13 al 15 giugno a Iskenderun il vicariato ha organizzato un incontro per discutere della situazione e delineare gli interventi e le attività delle prossime settimane, in un quadro che resta di grande bisogno.
“I cristiani - racconta mons. Bizzeti - non sono diversi dalle altre minoranze, risentono dei problemi di tutti: la casa, il lavoro, la scuola, la quotidianità, la vita ordinaria. Il tutto richiederà anni per essere sistemato. Ancora oggi è difficile dire cosa si può fare dall’esterno per aiutare, ma il punto centrale resta quello di mantenere alta l’attenzione, ricordare che in questi luoghi vi sono le radici della cristianità. E le Chiese in Occidente - aggiunge - dovrebbero sensibilizzare e interessare i loro governi, perché abbiano a cuore e contribuiscano a conservare la presenza cristiana in Medio oriente. Sto parlando di politiche serie, da mettere in agenda”.
Il terremoto di magnitudo 7,7 del 6 febbraio scorso resta una ferita ancora aperta per la Turchia, con una situazione di grave emergenza ancora oggi attiva in 11 grandi centri nel sud e nel sud-est del Paese e oltre-confine, nel nord della Siria. Il bilancio delle vittime ha superato quota 50mila (oltre alle 8mila e più riferite da Damasco), ma i dati non sono definitivi visto il ritrovamento di altri due cadaveri nei giorni scorsi sotto le macerie in smaltimento di un edificio ad Adiyaman. I palazzi e le case crollate o gravemente danneggiate sono più di 160mila, gli sfollati a distanza di quattro mesi superano i due milioni, per una emergenza senza fine. A questo si sommano le persone scomparse, come ha sottolineato in una interrogazione parlamentare la deputata del Partito verde e di sinistra Tülay Hatimogullari che invoca chiarezza sul numero dei dispersi.
Nella prima fase dell’emergenza il vicariato d’Anatolia e Caritas Turchia hanno curato la distribuzione di acqua, viveri, coperte, abiti, medicinali, detersivi, materiali per la pulizia nella sede dell’episcopio a Iskenderun, a domicilio, nelle strade e nei primi accampamenti. A questo si sono aggiunte le tende-scuola per garantire un minimo di scolarizzazione e dare un contributo allo sviluppo dei ragazzi in un contesto di grave bisogno. In un secondo momento gli interventi della Chiesa hanno riguardato la fornitura di tende, attrezzature, cucine da campo, bagni-doccia, container e utensili per la mensa, ventilatori e frigoriferi. Nei primi tre mesi sono state assistite quasi 55mila famiglie con beni di prima necessità, cui si sommano aiuto psicologico per giovani e adulti, sostegno all’istruzione e cure mediche.
Nella regione di Hatay, la più colpita, “buona parte della popolazione è sfollata in altre città e non prevede di rientrare a breve” racconta il vicario d’Anatolia. “Molti desiderano tornare - prosegue - ma non vi sono stime affidabili sui tempi. Nella regione di Antiochia non è possibile ricostruire, le persone si stanno predisponendo a restare a lungo lontano dai luoghi in cui vivevano. Altri ancora sono rimasti nell’area e vivono nelle tendopoli o nelle baraccopoli, necessitano di tutto a cominciare dai viveri e di impianti di ventilazione e per rinfrescare, perché con l’avvento della stazione calda all’interno delle tende il clima è rovente. Vi è poi il problema di conservare il cibo, ed è su questi interventi che si sta concentrando oggi l’attività della Caritas”.
A una prima stima, nell’area più colpita è rimasto il 20% circa della popolazione originaria e la Chiesa si è adoperata nell’ultimo periodo per fornire attrezzature a operai e artigiani, perché possano ricominciare a lavorare. E ancora vacche, capre e pecore agli allevatori, il necessario alle donne che un tempo lavoravano a maglia in casa fornendo prodotti alle ditte del nord della Turchia. “Strumenti e attrezzature per riprendere il lavoro - afferma mons. Bizzeti - e in quest’ottica il contributo del micro-credito è fondamentale”.
(AsiaNews 23/06/2023) -
LIBANO - Appello del patriarca della Chiesa armeno cattolica a sostenere i cristiani del Libano e di tutto Medio Oriente "da dove fu diffuso il messaggio evangelico”, in occasione del cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale.
Settantacinque anni di vita vissuta, di cui 50 dedicati al sacerdozio: per il patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici, Raphael Bedros XXI Minassian, la celebrazione dell’anniversario della sua ordinazione, il 24 giugno, nella chiesa di San Gregorio Armeno a Napoli, è stato un momento di grande emozione e anche di importante riflessione sul destino degli armeni e sulla necessità di diffondere il messaggio di fratellanza di cui il mondo ha bisogno. Una data, quella odierna, che assume ancora di più significato dal momento che sette anni fa, in questo stesso giorno, Papa Francesco si recava in un pellegrinaggio nella terra di Hayk, in Armenia, il “primo Paese cristiano”, ai pendii del Monte Ararat, laddove l’arca di Noè si posò e da dove la vita riprese il suo corso dopo il diluvio universale.
Le tante guerre dimenticate
Dalla famosa chiesa della città partenopea che custodisce le reliquie di San Gregorio – all’origine della conversione al cristianesimo del popolo armeno, primo popolo inoltre ad aver adottato la fede cristiana come fede di Stato – il Patriarca ha ripercorso le tappe della sua vocazione, scandita da 33 anni “vissuti nella guerra”, come ha ricordato lui stesso, trascorsa prima come sacerdote, poi come vescovo dell’Armenia e dell’Europa orientale ed ora come Patriarca. “Qui in Europa – sono state le sue parole – gli occhi sono rivolti tutti alla guerra in Ucraina ed è giusto che sia così. Ma ci sono tante altre guerre e miserie di cui non si parla”.
Ricordare i cristiani del Medio Oriente
Minassian ha indicato poi le difficoltà che ancora oggi vive il Libano, dove si trova la sede del Patriarcato armeno cattolico, un Paese martoriato prima dalla guerra civile durata decenni, e ora da una crisi economica e politica che ha ridotto la popolazione alla fame. “In Libano oramai manca tutto. Oserei dire che manca persino la speranza” ha detto il patriarca, invitando i presenti alla celebrazione a non dimenticare i loro fratelli in Cristo, non solo in Libano, ma “in tutto il Medio Oriente, da dove fu diffuso il messaggio evangelico”.
I diritti violati degli armeni del Nagorno Karabakh
Raphael Bedros XXI si è poi soffermato sulla questione da sempre nel suo cuore, il destino degli armeni del Nagorno Karabakh, “quel lembo di terra abitato da sempre da armeni che si trova circondato da territorio azero”. Minassian ha quindi denunciato come “120 mila esseri umani si trovino da più di 190 giorni isolati dal mondo, dopo che le autorità dell’Azerbaigian hanno deciso di bloccare l’unica strada che collega la regione all’Armenia e al resto del mondo. 120 mila persone, tra cui vecchi, donne e bambini, a cui viene negata la dignità di vivere”. Una drammatica violazione che avviene nel “totale silenzio” dei media, delle autorità internazionali, e di chi oggi “vuole far prevalere i conflitti sui valori”, quegli stessi valori di cui oggi si parla tanto ma che difficilmente si mettono in pratica, quali “rispetto, libertà, dignità, uguaglianza, fraternità”. In nome di questi valori, ha concluso il patriarca degli armeni cattolici di Cilicia, “sono giunto qui pellegrino, in questo luogo sacro, per chiedere insieme a voi l’intercessione di San Gregorio e dei santi protettori di questa bella e grande città, affinché ci aiutino a diffondere tutti insieme quel messaggio di fratellanza di cui il nostro mondo ha bisogno”.
(Vatican News Robert Attarian 2023 06 24)
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CRISTIANI PERSEGUITATI: Nigeria, 7600 morti e 5200 sequestri: una domanda ai cristiani di Occidente
ilSussidiario.net
18.06.2023 - Andrea Mobiglia
Nel silenzio generale della stampa nazionale il 7 giugno è stato ucciso un altro sacerdote in Nigeria, don Charles Onomhoale Igechi, della parrocchia dell’arcidiocesi di Benin City, dove era stato ordinato il 13 agosto del 2022. Solo nell’anno in corso si contano almeno 4 sacerdoti cattolici nigeriani uccisi e 30 rapiti in 39 attacchi collegati a gruppi terroristici.
Nel Paese tra gennaio 2021 e giugno 2022 ci sono stati 7.600 cristiani uccisi e 5.200 sequestrati, inoltre il numero dii attacchi a chiese e istituzioni cristiane supera 400. Di questi attacchi si può citare ad esempio quello del 5 giugno 2022, la domenica di Pentecoste, avvenuto durante la Messa nella chiesa cattolica di San Francesco Saverio ad Owo: sono stati uccisi 40 fedeli e decine di persone hanno riportato gravi ferite (cfr Aiuto alla Chiesa che Soffre).
Padre Charles è l’ultimo cristiano di una lunga serie. In Nigeria le persecuzioni hanno raggiunto livelli preoccupanti, come testimoniato dai numeri citati, e nonostante la comunità cristiana sia pari al 46,25% (95 milioni di persone) della popolazione totale (206 milioni), esattamente la stessa percentuale dei musulmani, la presenza di Boko Haram è una costante minaccia, tanto che numerosi sono i casi di violenza e discriminazione contro i cristiani: tra i tanti, esemplificativi sono due fatti.
Il primo riguarda la discriminazione da parte delle milizie, che addirittura fermavano gli autobus per far scendere i cristiani, il secondo riguarda invece i rapimenti di giovani cristiane, come riportano le testimonianze raccolte da Acs: “Oltre sette anni dopo essere stata sequestrata da Boko Haram, sabato 7 agosto 2021 la studentessa di Chibok Ruth Ngladar Pogu si è riunita alla sua famiglia. Durante la prigionia, alle ragazze cristiane era stato chiesto di scegliere tra convertirsi all’islam e sposare i combattenti di Boko Haram o diventare schiave. Come molte delle ragazze, Ruth ha scelto di convertirsi e di sposarsi. È stata ritrovata, assieme ai suoi due figli, quando il marito di Boko Haram si è arreso all’esercito nigeriano”.
La situazione in Nigeria è particolarmente preoccupante e violenta e si è aggravata con l’avvento dell’Isis e l’adesione di Boko Haram allo Stato islamico, e gli eventi e i pericoli sono molto più numerosi dei pochi citati. Purtroppo non è la sola parte del mondo dove ci sono violente persecuzioni.
Un altro Paese dove le persecuzioni stanno assumendo un ruolo sempre più violento è il Nicaragua, dove il regime del presidente Ortega sta cercando in tutti i modi di mettere a tacere la voce della Chiesa, arrestando i sacerdoti e condannando a 26 anni mons. Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa e amministratore apostolico della diocesi di Estelí, al quale in precedenza era stato imposto un blocco da parte della polizia tale per cui era impossibilitato ad uscire persino di casa, non potendo quindi celebrare pubblicamente la Messa. Questa condanna è arrivata dopo l’espulsione, nei mesi scorsi, delle Missionarie della Carità di Madre Teresa, la chiusura di molte emittenti cattoliche e il divieto di varie processioni. Papa Francesco, nell’agosto scorso, ha parlato pubblicamente della situazione e della sua preoccupazione in merito, così come si sono espresse a favore della Chiesa varie conferenze episcopali. Il caso è molto diverso dalla situazione nigeriana ma non per questo meno preoccupante: alla Chiesa è impedita una qualsiasi presenza pubblica in Nicaragua, se non a costo della vita o, nel migliore dei casi, del carcere.
Tante altre situazioni meriterebbero di essere raccontate: sono storie che non possono non interrogare i cristiani d’Occidente e il ruolo della comunità cristiana e della Chiesa stessa.
Sono testimonianze che pongono una domanda vera e forte: per che cosa vale la pena vivere? E per chi vale la pena dare la vita?
Nella situazione di dolore, sangue e martirio appena accennata, forti risuonano le parole del Vangelo: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33).