2023 07 26 TANZANIA - Assassinio del sacerdote Pamphili Nada
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PAKISTAN - Tre casi di accuse di blasfemia verso i cristiani in un mese
Le “ALTRE” GUERRE DA NON DIMENTICARE
SUDAN - Dopo 100 giorni di guerra in Sudan la pace appare ancora lontana
AZERBAIGIAN – L’ Azerbaigian ha trasformato Artsakh in un campo di concentramento: 120 mila armeni dell’Artsakh isolati da oltre sette mesi
TANZANIA - Il vescovo Rugambwa esprime vicinanza alla comunità di Arusha dopo l’assassinio del sacerdote Pamphili Nada
“Il sacerdote è morto mentre veniva portato in ospedale, e il sospetto è stato ucciso da cittadini infuriati che lo aspettavano fuori dal luogo dell’incidente”. È quanto ha riferito alla stampa locale il comandante della polizia nella regione di Arusha in merito all’assassinio di padre Pamphili Nada nella parrocchia di Nostra Signora Regina degli Apostoli a Karatu, diocesi di Mbulu.
“La gente è rimasta profondamente scossa da questo improvviso e tragico evento - ha dichiarato all’Agenzia Fides il neo vescovo di Tabora, Protase Rugambwa, che Papa Francesco ha inserito nella lista dei futuri Cardinali, pubblicata il 9 luglio 2023. “Non sono riusciti a sopportare il dolore per l’assassinio del loro amato pastore e si sono scagliati contro chi è stato giudicato responsabile della morte di padre Nada”.
Le dinamiche del tragico e letale incidente riportano che mercoledì 19 luglio, un uomo era entrato in chiesa all’apparenza per pregare, quando invece ad un certo punto ha colpito p. Nada con un oggetto contundente pesante che ha causato la morte del sacerdote durante il trasporto in ospedale. L’omicida pare fosse affetto da problemi di salute mentale.
È stato un padre spirituale, conosciuto per la sua profonda fede e grande impegno, desideroso di adempiere alle sue responsabilità con zelo, dedizione e coraggio” ha dichiarato il vescovo Anthony Gaspar Lagwen della diocesi di Mbulu a nome della Conferenza Episcopale di Tanzania.
Il Canale Mwananchi Communication Limited che diffonde notizie e attualità ha riportato le dichiarazioni di alcuni residenti di Karatu i quali hanno affermato che l’omicida aveva cercato insistentemente di entrare in chiesa per pregare dalla notte precedente, ma le guardie glielo avevano impedito. Il giorno dopo, al mattino presto, l’uomo ha continuato a gridare per poter entrare a pregare, ed è stato allora che padre Nada è uscito e ha chiesto alla guardia di aprirgli la porta.
Solo quest’anno si tratta del terzo tragico episodio registrato ai danni della chiesa in Tanzania da parte di persone con malattie mentali. La prima è stata la profanazione della Cattedrale della Vergine Maria, Regina della Pace nella diocesi cattolica di Geita, il 26 febbraio 2023 (vedi Agenzia Fides 2/3/2023). La seconda è avvenuta l’11 maggio 2023, quando uno sconosciuto ha sfondato la porta principale della cattedrale di St. Charles Lwanga della diocesi di Kahama (vedi Agenzia Fides 15/5/2023).
(AP) (Agenzia Fides 21/7/2023)
PAKISTAN - Tre casi di accuse di blasfemia verso i cristiani in un mese: tensioni a Sargodha
Si registrano tensioni a Sargodha, città del Punjab pakistano, località dove, in meno di un mese, si sono verificati tre distinti casi di accuse di blasfemia verso i cristiani del luogo, che hanno innescato violenze, lasciando i residenti cristiani preoccupati per la loro incolumità.
L’ultimo caso è quello avvenuto il 16 luglio nel Chak n. 50 villaggio chiamato “Mariam Town”, dove Mohd Abdul Gaffar, ufficiale dell’aeronautica pakistana in pensione, ha riferito che, mentre tornava a casa insieme con Qari Muhammad Asif, imam della moschea locale, ha scoperto un piccolo opuscolo contenente contenuti blasfemi, lasciato sul muro di cinta della sua casa. Il contenuto dell’opuscolo era altamente irrispettoso nei confronti del Profeta Maometto e di altre figure islamiche, nonché verso il Corano, ed elogiava perfino il recente rogo del Corano in Svezia. La notizia si è diffusa rapidamente nella zona, attirando persone sul posto. La folla ha espresso la propria rabbia e frustrazione, chiedendo una severa punizione per l’ignoto bestemmiatore. La polizia è arrivata sul posto per riportare la situazione sotto controllo e ha registrato una denuncia (First Information Report) contro ignoti ai sensi degli articoli 295a, 295b, 295c e 298a del Codice penale, gli articoli che compongono la cosiddetta “legge di blasfemia”. Sebbene l’identità degli autori dell’opuscolo sia sconosciuta, per ritorsione la folla, indignata, ha iniziato a compiere atti vandalici verso le case dei cristiani, costringendo la polizia a presidiare l’area per evitare incidenti più gravi e mantenere l’ordine.
A Sargodha, è il terzo episodio del genere in poche settimane. Il 5 luglio, Haroon Shahzad, un cristiano del villaggio Chak n. 49, era stato accusato di blasfemia e arrestato per aver pubblicato un passo biblico sul suo account del social network Facebook (vedi Fides 5/7/2023). Per il medesimo motivo, nel villaggio Chak n. 98 dello stesso distretto, l’8 luglio un altro uomo cristiano, Zaki Masih, è stato accusato di blasfemia, sebbene il suo post su Facebook criticava chi commette frodi alimentari.
I cristiani pakistani temono l’insorgere di violenza, già minacciata in occasione del rogo del Corano avvenuto in Svezia, atto prontamente condannato dai credenti in Cristo (vedi Fides 17/7/2023). Secondo fonti locali, alcuni gruppi radicali potrebbero sfruttare l’incidente del Corano bruciato in Svezia come pretesto per compiere atti di vendetta. “I cristiani in Pakistan credono nel rispetto di tutte le religioni e non hanno alcun legame con l’episodio del ritrovamento dell’opuscolo blasfemo, tantomeno con l’incidente del rogo del Corano, che hanno stigmatizzato inequivocabilmente. Purtroppo, alcuni elementi all’interno del paese mirano ad alimentare le fiamme dell’odio religioso, approfittando di tali situazioni”, rileva Nasir Saeed, Direttore della Ong CLAAS (Centre for Legal Aid, Assistance and Settlement). “ È fondamentale che il governo adotti misure necessarie per fermare l’uso improprio della legge sulla blasfemia in Pakistan”, conclude, “e che garantisca sicurezza e incolumità alle famiglie innocenti dei cittadini pakistani cristiani di Sargodha”.
(PA) (Agenzia Fides 19/7/2023)
Le “ALTRE” GUERRE DA NON DIMENTICARE
SUDAN - Dopo 100 giorni di guerra in Sudan la pace appare ancora lontana
Mentre il conflitto sudanese entra nel suo centesimo giorno, una delle due parti in causa, l’esercito regolare (Sudanese Armed Forces - SAF) respinge la mediazione avviata dall’IGAD (Intergovernamental Authority on Developmen), l’organizzazione regionale che comprende Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Uganda, che propone il dispiegamento di una forza di interposizione in Sudan.
Il generale Yasser Al-Atta, vice comandante delle SAF ha inoltre intimato al Kenya di non interferire nel conflitto in corso nel suo Paese, accusando il Presidente keniano William Ruto, che presiede il quartetto incaricato di mediare nel conflitto sudanese (formato da Kenya, Etiopia, Sud Sudan e Gibuti) di essere “un mercenario per un altro Paese”, senza specificare quale.
Le SAF da tempo accusano Ruto di essere in combutta con il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, capo delle Rapid Support Forces (RSF), la forza paramilitare con la quale l’esercito regolare ha ingaggiato il conflitto scoppiato il 15 aprile.
Nel frattempo, ieri, 24 luglio, sono continuati i combattimenti a Khartoum. Un comitato di quartiere a Umbada ha affermato che almeno 15 persone sono state uccise nei raid a Omdurman.
L’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) riferisce che sono più di 740.000 i rifugiati, fuggiti dal Sudan e arrivati in condizioni precarie nei Paesi limitrofi (Ciad, Repubblica Centrafricana, Egitto, Etiopia e Sud Sudan). Dall’inizio dei combattimenti oltre 3,3 milioni di persone sono sfollate all’interno del Paese o rifugiate all’estero.
Lo scontro tra SAF e RSF rischia ormai di esplodere in un conflitto più ampio coinvolgendo le diverse etnie del Paese e quelle forze islamiste che erano state cacciate dal potere nel 2019, proprio dalle due formazioni militari al tempo alleate, e con la possibilità di travolgere pure alcuni degli Stati confinanti.
Nel Darfur le RSF sono accusate di aver compiuto operazioni di “pulizia etnica” contro le etnie non arabe, mentre nel Sud Kordofan una fazione del gruppo ribelle Sudan People’s Liberation Movement-North avrebbe preso il controllo di diverse basi delle SAF. (L.M.)
(Agenzia Fides 25/7/2023)
Il mensile TEMPI è molto attento alla situazione degli armeni in Artsakh.
Segnalo l’articolo del 25 luglio.
«L’Azerbaigian trasforma l’Artsakh in un campo di concentramento»
Baku ha isolato completamente i 120 mila armeni dell’Artsakh da oltre sette mesi. «Stiamo finendo cibo e medicine: la comunità internazionale deve impedire il genocidio», tuona il presidente Arayik Harutyunyan
di Leone Grotti 25/07/2023
«L’Azerbaigian sta trasformando l’Artsakh in un campo di concentramento». È la durissima accusa lanciata al regime di Baku da Arayik Harutyunyan, presidente della Repubblica dell’Artsakh. Da 226 giorni, oltre sette mesi, il territorio del Nagorno-Karabakh è completamente isolato a causa del blocco del Corridoio di Lachin, l’unica strada che collega la regione abitata da 120 mila armeni all’Armenia e al resto del mondo.
Durante una conferenza stampa straordinaria, il presidente Harutyunyan ha descritto le conseguenze della «catastrofe umanitaria» provocata dall’Azerbaigian «in spregio al diritto» e nell’indifferenza della comunità internazionale. In Artsakh mancano cibo, medicine, prodotti sanitari, latte in polvere per i neonati, riscaldamento, elettricità e benzina.
Il trasporto pubblico, così come quello privato, è completamente fermo, eccezione fatta per due autobus nella capitale e poche ambulanze. L’agricoltura è al palo per la mancanza di elettricità, interrotta da Baku insieme alle forniture di gas provenienti dall’Armenia. I malati gravi non possono essere curati né essere trasportati, come prima del blocco, negli ospedali dell’Armenia.
Dodicimila persone, pari al 60 per cento della forza lavoro del settore privato, hanno perso la propria occupazione e non possono più sostentare le proprie famiglie. A causa dei continui blackout le scuole non possono funzionare con regolarità e gli studenti sono costretti a studiare a lume di candela, mentre per riscaldare le case gli abitanti devono ricorrere alla legna.
Se dal 12 dicembre al 14 giugno l’Azerbaigian ha permesso almeno il passaggio di alcuni camion della Croce rossa internazionale carichi di aiuti umanitari, dal 15 giugno anche questi sono stati bloccati e i negozi sono pressoché vuoti.
«L’esistenza fisica di 120 mila armeni è a rischio», ha dichiarato il presidente Harutyunyan. «La comunità internazionale non può più restare a guardare mentre l’Azerbaigian porta avanti in modo meticoloso la sua politica, che altro non è se non un tentativo di pulizia etnica e genocidio ai danni del nostro popolo».
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