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2023 10 11 Guerra e persecuzione

Fonte:
CulturaCattolica.it
NIGERIA - rapite tre suore e un seminarista INDIA - Sacerdote e tre fedeli in cella nell’Uttar Pradesh NICARAGUA - La guerra di Ortega alla Chiesa: 19 sacerdoti privati della cittadinanza

GUERRE:
TERRA SANTA - Il parroco di Gaza: nessuno sa cosa ci aspetta
UCRAINA - il parroco di Beryslav: chiedo a tutta la Chiesa di pregare per noi
SUDAN - Grave crisi umanitaria al confine tra Sudan e Sud Sudan; non si ferma la guerra a Khartoum

ARMENIA-AZERBAIGIAN - Nagorno-Karabakh: salta il vertice con l’Europa, Stepanakert città fantasma

NIGERIA - rapite tre suore e un seminarista

Il 5 ottobre - ma se ne è avuto notizia solo oggi - tre suore e un seminarista sono stati rapiti insieme al loro autista nello Stato di Imo, nel sud del Paese

Il copione dei sequestri di suore e preti a scopo di estorsione si ripete in Nigeria a ritmo accelerato. Il 5 ottobre - ma se ne è avuto notizia solo oggi - tre suore e un seminarista sono stati rapiti insieme al loro autista nello Stato di Imo, nel sud della Nigeria. Le religiose appartengono alle Figlie Missionarie della Mater Ecclesia, un ordine della diocesi di Abakaliki, nello Stato di Ebonyi, e il seminarista ai Figli Missionari della Santa Trinità. Il rapimento, secondo quanto riporta l’agenzia Fides, è avvenuto lungo la strada verso Mbano, mentre il gruppo stava andando ai funerali della madre di una delle religiose. (Avvenire, Redazione Internet lunedì 9 ottobre 2023)

INDIA - Sacerdote e tre fedeli in cella nell’Uttar Pradesh

Nello Stato dominato dal partito induista del premier Modi, in cui sulle minoranze religiose le autorità stanno compiendo forti abusi, gli arrestati sono accusati di fare proselitismo
Sacerdote e tre fedeli in cella nell’Uttar Pradesh

Ancora intimidazioni ai danni dei cristiani nello Stato indiano dell’Uttar Pradesh. Quattro cattolici, tra i quali c’è anche un sacerdote, sono in carcere dal 2 di ottobre con l’accusa di avere violato la legge anticonversione in vigore nello Stato indiano. La notizia è stata data dall’agenzia di stampa Uca. Secondo il racconto di un altro sacerdote, padre Babu Francis, responsabile delle attività di solidarietà della diocesi di Allahabad, è stato arrestato quando si è recato nella stazione di polizia per informarsi sul fermo degli altri tre.
Secondo la denuncia, che segue un copione prestabilito, presentata da Vibhavnath Bharati, esponente del Bharatiya Janata Party, il partito induista del premier Narendra Modi – che ha la maggioranza anche nello Stato dell’Uttar Pradesh dal 2017 – Francis e gli altri tre avrebbero tentato di convertire abitanti dei villaggi vicini.
Lo Stato, il più popoloso di tutta l’India, con oltre 200 milioni di abitanti, ha approvato tre anni fa la legge contro le conversioni, definita uno strumento per combattere la cosiddetta minaccia della “Love jihad”, le conversioni all’islam ottenute dai musulmani sposando donne indù. La legge non è in vigore a livello nazionale, ma è stata approvata, oltre che in Uttar Pradesh in altri otto Stati indiani: Chhattisgarh, Gujarat, Haryana, Himachal Pradesh, Jharkhand, Karnataka, Madhya Pradesh, Orissa, Uttarakhand. In Uttar Pradesh viene utilizzata sempre più spesso per intimorire, oltre ai musulmani, anche i cristiani, che rappresentano una ristrettissima minoranza appena lo 0,18% della popolazione.
Allo Stato va il triste primato delle violenze perpetuate ai danni dei cristiani. Violenze cresciute esponenzialmente nella prima metà dell’anno, secondo quanto ha registrato un recente rapporto pubblicato da United Christian Forum (Ucf), organizzazione cristiana per i diritti umani con sede a Nuova Delhi. Su un totale 400 incidenti, registrati nel Paese, ben 155 sono avvenuti nell’Uttar Pradesh. (Avvenire, Redazione Esteri giovedì 5 ottobre 2023)

NICARAGUA - La guerra di Ortega alla Chiesa: 19 sacerdoti privati della cittadinanza

Dall’aprile 2018, sono stati registrati 667 attacchi contro l’ultima realtà indipendente rimasta nel Paese. La repressione è aumentata esponenzialmente negli ultimi due anni
Dal 2018, la Chiesa in Nicaragua ha sofferto 667 attacchi

Il punto di svolta è l’aprile 2018. Allora, una raffica inedita di proteste nonviolente di cittadini di tutti i gruppi sociali fece barcollare il regime di Daniel Ortega e Rosario Murillo. Le chiese aprirono le porte ai manifestanti in fuga dalla brutale repressione delle “turbas”, paramilitari armati e pagati dal governo. Immediatamente il presidente - che si definisce cattolico devoto - inserì vescovi, sacerdoti e, ora, perfino la Santa Sede, nella lista dei “nemici”. Il giro di vite è arrivato due anni fa: prima Ortega ha chiuso ogni spazio di libertà della società civile, facendo piazza pulita di media indipendenti, organizzazioni civili, antagonisti reali e presunti. Poi sono iniziati gli attacchi alla Chiesa, ultima realtà indipendente rimasta. In cinque anni, la ricercatrice Martha Molina in un nuovo rapporto ha documentato 667 aggressioni, i tre quarti sono avvenuti a partire dalla fine del 2021. Ben 19 sacerdoti - tra cui i vescovi Rolando Alvarez e Silvio Baez - sono stati dichiarati “traditori della patria” e privati della cittadinanza. Al momento, oltre a monsignor Alvarez, condannato a 26 anni per sovversione, sono in carcere otto preti. Altri tre sono sotto inchiesta, tra loro anche il cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua. (Avvenire, Lucia Capuzzi giovedì 5 ottobre 2023)

GUERRE

TERRA SANTA - Il parroco di Gaza: nessuno sa cosa ci aspetta

«Nessuno sa dove può andare a finire tutto questo, e purtroppo non ci sono segnali che quello che è iniziato ieri possa finire presto». Padre Gabriel Romanelli, parroco della parrocchia cattolica di Gaza dedicata alla Sacra Famiglia, descrive i sentimenti di incertezza carica tristi presagi che prevalgono nella popolazione locale dopo l’attacco massiccio sferrato dai miliziani di Hamas contro Israele. Pesa soprattutto la memoria di quanto è accaduto in passato in altre fasi di conflitto. «Per situazioni molto meno gravi di quella attuale» ricorda il sacerdote argentino, appartenente all’Istituto del Verbo Incarnato «qui sono iniziate in passato guerre molto lunghe. E ora davanti a tutto questo, mi torna continuamente in mente l’appello di Papa Pio XII prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale: nulla è perduto con la pace, tutto si può perdere con la guerra. Sono parole ripetute anche da San Giovanni Paolo II». Per padre Gabriel adesso si può solo «Pregare e sperare che la guerra finisca al più presto, per rendere meno difficile far guarire le ferite e poi lavorare per la giustizia e la pace che tanti israeliani e palestinesi desiderano nell’intimo del proprio cuore». (GV) (Agenzia Fides 8/10/2023).

Padre Patton (Custode di Terrasanta): il mio pensiero va alla piccola comunità cristiana di Gaza

L’Osservatore Romano a colloquio con il custode di Terra Santa, da otto anni a Gerusalemme: “La città è semivuota, come ai tempi del lockdown. Ovunque sembra esserci il timore di quanto ancora può succedere”

Così ci riferisce padre Francesco Patton, custode di Terra Santa, da 8 anni a Gerusalemme. «Noi frati, come la maggior parte della popolazione civile araba e israeliana, rimaniamo al chiuso, cercando di capire dai siti di informazione e da messaggi con chi vive nei vari luoghi cosa stia succedendo nel resto del Paese».

Padre custode che idea si è fatto degli avvenimenti di queste ore?
(…) le dico francamente che la mia preoccupazione va ora in una direzione diversa dalle considerazioni di tipo strategico e politico. Penso, e prego incessantemente con i miei frati, per il numero terribile di vittime che si sono consumate in questi due giorni. La stragrande maggioranza di esse sono vittime civili. Dalle foto degli stessi militari israeliani pubblicate sui siti si vede che molti di essi sono poco più che ragazzi. E prego per i tanti ostaggi ora prigionieri a Gaza. Tra di loro anche anziani, donne, e bambini. Prego poi per i miei fratelli nella fede di questa terra. La minoranza cristiana di Terra Santa anche questa volta rischia di essere compressa da un conflitto a cui non partecipa. Per i cristiani arabi di questa terra la legittima aspirazione alla creazione di uno stato di Palestina qui non si declina mai in azioni violente o prevaricanti. Il mio pensiero va in modo particolare alla piccola comunità cristiana di Gaza, che rischia di estinguersi.
(di Roberto Cetera RV 2023 10 09)

UCRAINA - il parroco di Beryslav: chiedo a tutta la Chiesa di pregare per noi

La chiesa greco-cattolica della città ucraina nella regione di Kherson, nota per la sua mensa per i poveri, è stata danneggiata dagli attacchi aerei russi. Nell’intervista, don Oleksandr Bilskyi racconta la situazione in città e i danni subiti dagli abitanti. Tra le vittime dei bombardamenti anche alcune persone della sua parrocchia

“Chiedo a tutti, imploro tutta la Chiesa e il mondo intero di pregare per la nostra parrocchia dei Martiri Maccabei a Beryslav e per tutta l’Ucraina, perché solo attraverso la preghiera possiamo fermare chi ci sta uccidendo senza pietà”: lo chiede don Oleksandr Bilskyi, parroco della parrocchia greco-cattolica nella città di Beryslav, nella regione di Kherson, situata sulla riva destra del fiume Dnipro nel sud dell’Ucraina. La città, occupata all’inizio dell’invasione russa e liberata in autunno dell’anno scorso, è ora costantemente bombardata dalle truppe russe. Anche la chiesa greco-cattolica locale e la mensa per i bisognosi che dava speranza ai molti residenti rimasti senza mezzi di sostentamento, sono state danneggiate dai bombardamenti. Inoltre, la parrocchia ha subito perdite irreparabili: tre parrocchiani sono stati recentemente uccisi. Ai microfoni di Vatican News/Radio Vaticana, don Oleksandr ha parlato della situazione in città:

Don Bilskyi, in queste settimane abbiamo ricevuto continue notizie sul peggioramento della situazione a Beryslav, che sta subendo brutali bombardamenti. Come vive questi eventi la vostra parrocchia?

Nelle ultime due settimane i bombardamenti si sono intensificati notevolmente. La Federazione Russa sta lanciando senza interruzione bombe aeree guidate. C’è molta distruzione e in ogni attacco muore qualcuno. Per questo chiedo a tutti di pregare per la nostra città, per la regione di Kherson e per la nostra Ucraina. Vicino a noi si trova l’ospedale centrale della città, che è stato distrutto perché il 5 ottobre ci sono stati due attacchi aerei su quell’edificio. Purtroppo anche la nostra chiesa è stata danneggiata (…) La perdita irrimediabile che ha subito la nostra parrocchia nelle ultime settimane è la morte dei nostri tre parrocchiani che sono stati uccisi dalle bombe aeree guidate. È successo la scorsa domenica: una delle parrocchiane, tornata a casa dalla chiesa dopo la messa, è rimasta uccisa dalla bomba che è atterrata proprio sulla sua casa. Il giorno dopo, altri parrocchiani si sono recati all’Ufficio manutenzione alloggi per prendere dei materiali per riparare le loro abitazioni gravemente danneggiate dopo i bombardamenti, ed è stato lì che è arrivata un’altra bomba che ha tolto la vita a due persone. Hanno proprio colpito l’Ufficio manutenzione alloggi, dove la gente andava a chiedere aiuto… Chiedo a tutti e imploro tutta la nostra Chiesa cattolica e il mondo intero di pregare per noi.

Lei ha detto che la vostra chiesa, dove sin dall’inizio della guerra e anche prima organizzavate la mensa per i bisognosi, è stata distrutta. Qual è la situazione ora? La mensa funziona ancora?

Non abbiamo chiuso la mensa però ora che i bombardamenti si sono intensificati non stiamo distribuendo pasti caldi. Però comunque stiamo distribuendo cibo alle persone che hanno bisogno: abbiamo ancora tanti prodotti alimentari - cibo in scatola, pasta, riso - e li diamo alle persone che vengono da noi. La nostra chiesa non chiude, così come dall’inizio della guerra. Anche nelle circostanze e nelle situazioni più difficili, non abbiamo mai chiuso le porte della chiesa - sia durante l’occupazione di Beryslav, che dopo la sua liberazione da parte dei nostri soldati - perché tutti possano venire in chiesa e rivolgere le loro preghiere al nostro Padre Celeste, ringraziarlo per il dono della vita e pregare per i loro cari. Continuamo a svolgere le funzioni religiose e cerchiamo di pregare il più possibile, nonostante la situazione attuale.

Ora che la situazione si è aggravata, più persone stanno lasciando Beryslav? Ci sono ancora bambini nella città?

Dopo l’aggravarsi della situazione, le autorità stanno facendo tutto il possibile per incoraggiare e chiedere alle persone di lasciare la città, soprattutto ai genitori con bambini. Anche noi stiamo incoraggiando e pregando tutti di lasciare le loro case per salvarsi la vita, perché qui è pericoloso. Ma circa tremila persone rimangono ancora in città, tra cui un centinaio di bambini. E questa situazione non riguarda solo Beryslav, ma anche i villaggi circostanti. Sta soffrendo tutta la gente anche intorno a Beryslav, perché gli attacchi avvengono ogni giorno. (…)

Di che cosa hanno più bisogno le persone rimaste in questi luoghi? Che tipo di aiuto cercate?

Le cose di cui la gente ha più bisogno sono legna e bricchetti di legno, perché sappiamo che l’aggressore non si fermerà. L’inverno e il freddo stanno arrivando e la gente non riesce a comprare il materiale per riscaldare le proprie abitazioni. Quindi ora, prima di tutto, abbiamo bisogno di vari tipi di combustibile per l’inverno. Abbiamo anche bisogno di materiali per le riparazioni, in modo che le persone possano aggiustare almeno un po’ le loro abitazioni, per evitare che le loro cose vengano distrutte dalle intemperie. C’è anche bisogno di cibo, medicinali. Inoltre, a Beryslav e nei villaggi circostanti non c’è più elettricità, e quindi la gente ha bisogno di detersivi per lavare i vestiti e di prodotti per l’igiene personale.

Cosa vorrebbe dire ai cattolici dei diversi Paesi del mondo?

Vorrei chiedere un’incessante preghiera affinché la nostra gente senta il sostegno di tutti, del mondo intero. Questo sostegno lo sentiamo già, ma oltre a tutte le cose materiali, abbiamo bisogno della preghiera perché il Signore salvi le vite. Quindi, per favore, chiedo a tutti una preghiera intensa e ringrazio tutti coloro che pregano, tutti coloro che ci sostengono e ci aiutano.
(Svitlana Dukhovych - Città del Vaticano RV 2023 10 08)

SUDAN - Grave crisi umanitaria al confine tra Sudan e Sud Sudan; non si ferma la guerra a Khartoum

Si aggrava la crisi umanitaria in Sudan con forti ripercussioni nei Paesi confinanti in particolare il Sud Sudan. Il Programma Alimentare Mondiale (PAM) ha lanciato l’allarme sulla crisi alimentare di che incombe al confine tra Sudan e Sud Sudan, dove intere famiglie in fuga dai combattimenti in Sudan continuano ad attraversare il confine.
Il PAM sottolinea che “delle quasi 300.000 persone arrivate in Sud Sudan negli ultimi cinque mesi, un bambino su cinque soffre di malnutrizione e il 90% delle famiglie afferma di trascorrere diversi giorni senza mangiare”.
La maggior parte delle persone arrivate in Sud Sudan sono sud sudanesi che vivevano a Khartoum e in altre parti del Sudan e costrette alla fuga dai combattimenti scoppiati in Sudan a metà aprile. Il loro arrivo non fa che aggravare la situazione del Sud Sudan che sta già affrontando bisogni umanitari senza precedenti.
“Stiamo assistendo famiglie che si spostano da un disastro all’altro mentre fuggono dal pericolo in Sudan, solo per trovare la disperazione in Sud Sudan”, ha affermato Mary Ellen McGroarty, Direttore nazionale del PAM per il Sud Sudan.
La stagione delle piogge ha reso più difficili le condizioni nei centri di transito affollati e ai valichi di frontiera, con le inondazioni che hanno esacerbato l’insicurezza alimentare e contribuito alla diffusione di malattie riferisce il PAM. Diverse famiglie hanno anche raccontato di essere state vittime di furti e violenze mentre fuggivano dalla guerra in Sudan e attraversavano il confine con il Sud Sudan con nient’altro che i vestiti che indossavano.
Nel frattempo a Khartoum non si fermano i combattimenti tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah Al-Burhan e le Forze di Supporto Rapido (RSF), comandate da Mohamed Hamdan Daglo, noto come Hemedti, che dal 15 aprile si contendono il controllo della capitale sudanese. Ieri, 3 ottobre, almeno10 persone sono morte nei bombardamenti attribuiti alle RSF. Tra gli edifici colpiti ad Al-Samrab, un quartiere di Khartoum c’è pure una moschea. Anche l’ambasciata etiopica è stata colpita con armi pesanti. L’attacco, attribuito dalle RSF all’esercito, non avrebbe causato vittime ma danni materiali. Alcune settimane fa la stessa ambasciata era stata colpita da un attacco aereo, presumibilmente condotto dalle forze governative. (L.M.) (Agenzia Fides 4/10/2023)

ARMENIA-AZERBAIGIAN - Nagorno-Karabakh: salta il vertice con l’Europa, Stepanakert città fantasma

L’Azerbaigian aveva chiesto la presenza dei rappresentanti turchi, ma Germania e Francia si sono opposte, rimandando la risoluzione diplomatica. L’Armenia sta cercando di rispondere ai bisogni immediati di circa 100mila profughi, arrabbiati con la comunità internazionale per essere stati abbandonati, riferiscono diverse fonti. Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha raccontato ad AsiaNews di aver trovato “deserta” la città di Stepanakert, chiamata Khankendi dagli azeri.

Il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, non parteciperà al summit di Granada dove oggi avrebbe dovuto discutere con alcuni Paesi europei e le autorità armene il futuro del Nagorno-Karabakh con lo scioglimento della repubblica dell’Artsakh. Dopo che la conquista armata dell’enclave ha provocato un esodo di oltre 100mila persone verso l’Armenia, si moltiplicano gli appelli per una soluzione negoziata, a cui si è aggiunto oggi anche quello della presidenza del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa, che “chiede alla comunità internazionale di alleviare l’emergenza umanitaria delle centinaia di migliaia di rifugiati” e di “monitorare il patrimonio cristiano che si trova in Nagorno-Karabakh”. Ci sono infatti 1.456 monumenti armeni “che dopo il cessate il fuoco del 2020 sono passati sotto il controllo dell’Azerbaijan e che già durante la guerra sono stati danneggiati”, sottolineano i vescovi. Il Consiglio delle conferenze episcopali auspica inoltre “che gli attori internazionali trovino una soluzione negoziata che garantisca la sicurezza degli sfollati e il loro diritto a rimanere nelle terre in cui sono cresciuti con le loro tradizioni”.

L’Artsakh è una regione a maggioranza armena, di tradizione cristiana, situata all’interno dei confini dell’Azerbaijan per volere di Stalin, che divise i territori agli inizi del ‘900 durante l’epoca sovietica. Le tensioni hanno cominciato ad emergere dopo la dissoluzione dell’URSS tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90. Prima dell’ultima offensiva lampo, avvenuta il 19 settembre e conclusasi in appena 24 ore, il corridoio di Lachin che collega il Nagorno-Karabakh all’Armenia era rimasto bloccato per 10 mesi, e la diplomazia europea non era riuscita a superare la situazione di stallo, L’ultima guerra, della durata di 44 giorni, era stata combattuta nel 2020 ed era terminata una fragile tregua.

Il presidente azero Aliyev aveva preso in considerazione di partecipare ai colloqui con i leader di Francia, Germania, Armenia e il presidente del Consiglio dell’UE, Charles Michel, ma aveva chiesto che all’incontro prendessero parte anche rappresentanti della Turchia. La richiesta non è stata accolta da Berlino e Parigi, che, al contrario, ha annunciato che continuerà a fornire attrezzature militari a Erevan, irritando ulteriormente Baku.

Le autorità armene stanno intanto cercando di affrontare i bisogni immediati dei profughi, soprattutto in previsione dell’inverno, perché, secondo gli esperti, è chiaro che non torneranno nel territorio ora controllato dall’Azerbaigian, nonostante le promesse dei funzionari azeri di garantire “pari libertà e diritti indipendentemente dall’appartenenza etnica, religiosa o linguistica”. Gli analisti dell’International Crisis Group, sostengono che “le promesse fatte dall’Azerbaigian sono insufficienti per creare fiducia”, dopo decenni di tensioni. Secondo Tigran Grigoryan, a capo del Regional Center for Democracy and Security, un think tank di Erevan, la popolazione locale si sente “lasciata indietro, fondamentalmente, dal mondo intero, dalla comunità internazionale, in parte dal governo dell’Armenia”. Anche la vice sindaca di Goris, Irina Yolyan, ha commentato dicendo che “migliaia di famiglie sono ora senza casa. L’Azerbaigian è come un rullo compressore sull’asfalto. Niente li ferma e questa situazione crea grande infelicità, grande malcontento per le perdite territoriali e per l’enorme livello di sofferenza umana”.

Gli esperti delle Nazioni unite, arrivati per la prima volta sul posto in 30 anni, stimano che siano rimasti da 50 a 1.000 armeni nella regione. Marco Succi, a capo del team di rapido intervento del Comitato internazionale della Croce Rossa (CIRC), ha raccontato di aver trovato una “situazione surreale” al suo arrivo il 22 settembre nella città più grande della regione, chiamata Stepanakert dagli armeni e Khankendi dagli azeri. “La città si è svuotata, adesso è quasi deserta”, ha spiegato ad AsiaNews. “Al momento sono rimaste poche decine di persone che non volevano andarsene o individui vulnerabili che non sono riusciti a fuggire, perlopiù anziani, pazienti costretti a letto o persone mentalmente disabili”. Alcuni sono stati trovati in situazione di grave malnutrizione. Le reti di comunicazione sono saltate, per cui chi è rimasto non ha la possibilità di contattare chi ha lasciato la regione. “La rete elettrica invece è ancora in funzione, così come la rete idrica, però non conosciamo la qualità dell’acqua”, ha continuato Succi. “Gli ospedali non funzionano, ci sono solo cinque ambulanze azere che operano in maniera limitata”.
(AsiaNews 5/10/2023)

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