2023 12 20 GAZA - attacco alla parrocchia, uccise due donne cristiane
- Autore:
- Fonte:
UCRAINA - La Chiesa cattolica e la Caritas messe al bando nei territori occupati MYANMAR - Loikaw: l’esercito mantiene la presa sulla cattedrale, il vescovo rifugiato ‘in foresta’
GAZA - attacco alla parrocchia, uccise due donne cristiane. P. Ibrahim: ‘Follia’
“Una cosa orribile, stiamo tutti malissimo”. Raggiunto al telefono da AsiaNews p. Ibrahim Faltas, Discreto della Custodia francescana e direttore delle scuole cristiane di Terra Santa, conferma l’uccisione di due donne cristiane nel complesso della parrocchia latina della Sacra Famiglia a Gaza, la cui unica “colpa” era di “stare attraversando la strada”. Entrambe, infatti, volevano recarsi dall’altro lato per andare nell’edificio delle suore “e sono state colpite e uccise”. “Una follia - aggiunge p. Ibrahim - nel contesto di una situazione terribile, di persone che non hanno più un tetto, vivono in un convento e sono prese di mira” senza colpa. “Così ci apprestiamo a vivere il Natale”.
Una nota diffusa in questi minuti dal patriarcato latino di Gerusalemme conferma l’attacco ai cristiani. “Verso mezzogiorno di oggi un cecchino delle Idf [l’esercito israeliano] ha ucciso due donne - si legge nella dichiarazione, inviata ad AsiaNews dal parroco di Gaza p. Gabriel Romanelli - dentro la parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza”. Nahida e Samar, questi i nomi di madre e figlia, “sono state colpite e uccise” da un cecchino che avrebbe colpito e ammazzato anche altre persone di passaggio nella zona. Le due donne “sono state uccise a sangue freddo dentro le mura della parrocchia, dove non vi sono combattenti o miliziani” accusa il patriarcato.
Cristiani nel mirino a Gaza, dove l’esercito israeliano sta conducendo una operazione militare nell’area della parrocchia della Sacra Famiglia finita sotto attacco, colpendo direttamente i fedeli presenti all’interno. Al momento il bilancio provvisorio è di due vittime, che secondo alcune fonti sarebbero madre e figlia. Si tratta di Nahida Khalil Pauls Anton “Umm Emad” e di sua figlia Samar Kamal Anton, colpite dai proiettili dei cecchini israeliani. La madre è morta sotto i colpi dei militari e la figlia sarebbe stata uccisa mentre cercava di soccorrere l’anziana; oltre alle due vittime già accertate vi sarebbero anche diversi feriti, almeno sette secondo fonti del patriarcato, uno dei quali in condizioni gravissime. In precedenza carri armati con la stella di David hanno aperto il fuoco contro la casa delle suore di Madre Teresa, che ospita 54 persone con disabilità ora sfollate “e senza un posto dove stare” sottolinea la nota patriarcale, “distruggendo il generatore” e provocando altri danni, una religiosa è rimasta ferita a una gamba.
Testimoni riferiscono che i militari israeliani avrebbero attaccato per la presenza - sebbene la notizia sia palesemente infondata - di un mezzo spara-razzi all’interno della parrocchia, che si trova nel quartiere di Zeitoun a Gaza City.
Per i cristiani di Gaza si prospetta un Natale di “angoscia” e di “sangue”, come raccontava ieri il parroco di Gaza p. Gabriel Romanelli. La guerra contro i terroristi di Hamas lanciata da Israele ha finito per colpire anche inermi civili cristiani. “Non capiamo come stia stato possibile concepire questo attacco - conclude la nota del patriarcato - a maggior ragione adesso che la Chiesa si sta preparando per le festività di Natale”.
(di Dario Salvi AsiaNews16/12/2023)
Solo il giorno prima
PARROCO DI GAZA - il Natale in guerra e ‘l’angoscia’ dei cristiani della Striscia
Da Gerusalemme p. Romanelli è in contatto costante con il vice-parroco e i fedeli ospitati nella parrocchia. Le molte richieste a Israele di poter tornare “cadute nel vuoto”. Egli è “voce e memoria” delle vittime cristiane e di quanti soffrono. Serve una tregua, a Gaza si muore anche per una influenza. “Un minuto in più di guerra” comporta “altri morti, feriti, malati non curati, distruzione”.
I cristiani vivono “sentimenti contrapposti” perché, da un lato, considerano la chiesa, la parrocchia “un luogo sicuro” nonostante i bombardamenti ma, dall’altro, sono “angosciati” per i “segnali” che giungono “dall’esterno: [Israele] continua la guerra, non vi sono prospettive di tregua” e i missili “si fanno sempre più vicini”. È quanto racconta ad AsiaNews p. Gabriel Romanelli, il parroco della Sacra Famiglia a Gaza, bloccato a Gerusalemme (prima ancora a Betlemme) e impossibilitato a tornare nella Striscia dell’inizio del conflitto per la chiusura delle frontiere imposta da Israele. I raid dell’aviazione e le operazioni sul terreno dell’esercito, prosegue, sono “ormai arrivate nella zona della parrocchia” tanto da “ferire quattro persone colpite dalle schegge” oltre a vari danni materiali: pannelli solari sui tetti, in particolare l’ex asilo dove oggi dormono centinaia di persone, al cui interno entra acqua per le tegole rotte, come pure nella sala adibita ad archivio della parrocchia. Centrati anche una cisterna e il tetto di una delle strutture delle suore di Madre Teresa. Bambini e adolescenti all’interno stanno bene - sottolinea p. Romanelli - ma hanno perso la scorta di acqua e la pioggia di questi giorni penetra all’interno”.
Intanto anche fra i cristiani aumentano le vittime fra decessi collegati alla guerra e morti per l’impossibilità di cure mediche, almeno 22 sinora: “Nell’attacco alla chiesa greco-ortodossa - ricorda il parroco di Gaza - sono morte 18 persone, di cui 17 cristiani e un musulmano. Dopo alcuni giorni una signora, anch’essa ferita nei bombardamenti. Poi l’anziana colpita dai cecchini israeliani, il cui corpo è stato recuperato a distanza di giorni durante la breve tregua. E ancora, due uomini di cui uno nei primi giorni della guerra e un secondo, rifugiato in parrocchia, morto perché mancava una sala dove poterlo operare. Infine, un’ultima vittima nel sud, un luogo che si diceva sicuro: un uomo di 34 anni, che non ha potuto spostarsi nella parte nord della Striscia per essere operato di appendicite, che è degenerata uccidendolo”. (…)
Prima da Betlemme e oggi da Gerusalemme, il parroco vuole essere “voce e memoria” di queste persone che soffrono o che muoiono. “Sanno di non essere abbandonati - afferma p. Romanelli, parlando dei sentimenti con cui i parrocchiani vivono queste settimane di guerra - e sono uniti ai 2,3 milioni di abitanti della Striscia accumunati da una enorme sofferenza”. “Le telefonate quotidiane di papa Francesco, anche quando stava male e aveva poca voce, sono - prosegue il sacerdote - elemento di grande conforto e sostegno. Come pure la solidarietà e la vicinanza del patriarca [di Gerusalemme dei latini Pierbattista] Pizzaballa Ma vi è anche profonda delusione perché la comunità internazionale non riesce a trovare un accordo per una tregua che faccia cessare le bombe e favorisca l’ingresso di aiuti e medicine, anche nel nord dove vi sono 400mila persone. Perché i pochissimi aiuti vanno al sud, ma nella zona settentrionale non arriva nulla. La richiesta comune è di lavorare per la pace e la giustizia, oltre alla liberazione dei prigionieri” nelle mani di Hamas.
In questo contesto di conflitto, violenze e sofferenza, i cristiani della Striscia si apprestano a vivere il Natale che, un tempo, era un momento di festa. “È sempre un momento speciale - sottolinea p. Romanelli - ma oggi vi è anche grande tristezza e angoscia perché non dico la pace, ma non si riesce nemmeno a giungere a un cessate il fuoco. Un mese, una settimana, un giorno… anche solo un minuto in più di guerra significano altri morti, feriti, malati non curati, distruzione che già è enorme. Serve quantomeno una tregua permanente, come già avvenuto in passato quando vi sono stati conflitti” anche se, ammette con profonda tristezza il sacerdote, oggi a prevalere sembrano essere solo i venti di guerra.
(di Dario Salvi AsiaNews15/12/2023)
UCRAINA - La Chiesa cattolica e la Caritas messe al bando nei territori occupati
Il governatore filorusso della regione di Zaporizhzhia vieta ogni attività della Chiesa greco-cattolica e si impossessa delle parrocchie. L’arcivescovo Shevchuk: dura repressione
Due pagine in lingua russa sanciscono la messa al bando della Chiesa greco-cattolica ucraina. In alto il logo verde e amaranto mutuato da quello della città di Zaporizhzhia e ricreato a tavolino nelle stanze del Cremlino indica la regione in cui il decreto è in vigore: quella occupata dai russi che accoglie anche la più grande centrale nucleare d’Europa. A firmare il provvedimento è Yevhen Balytsky, ex consigliere regionale ucraino con un passato nell’aeronautica sovietica che fin dall’inizio della guerra ha scelto di stare con Mosca e da collaborazionista è stato nominato nell’ottobre 2022 governatore militare-civile dell’area in mano russa dell’oblast di Zaporizhzhia. Ed è in quell’80% del territorio controllato dal Cremlino che la maggiore denominazione cattolica dell’Ucraina è stata vietata. Un “ordine” pubblicato sul sito ufficiale di Balytsk che proibisce non solo ogni attività della Chiesa guidata dall’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, ma anche quella degli organismi cattolici di stampo umanitario come la Caritas e i Cavalieri di Colombo «impegnati nei servizi sociali», spiega il portale ecclesiale che ha reso noto il documento datato dicembre 2022 ma «scoperto soltanto di recente».
«Tutte le organizzazioni e comunità religiose, ad eccezione della Chiesa ortodossa russa, sono soggette a una dura repressione», denuncia Shevchuk nel suo ultimo messaggio settimanale. (…)
Il decreto che la comunità nel mirino definisce «ingiustificato» fa leva su una serie di pretesti giuridici utilizzati dall’amministrazione militare russa per dare una parvenza legale all’atto che soffoca la vita delle parrocchie cattoliche. Anzitutto, si fa riferimento a presunti «esplosivi e armi da fuoco» trovati «negli edifici religiosi e nei locali ausiliari». Poi il governatore scrive che la missione della Chiesa greco-cattolica viene svolta «in violazione della legislazione sulle organizzazioni religiose e pubbliche della Federazione russa». E si elencano alcune fittizie infrazioni: la «partecipazione dei parrocchiani alle rivolte di massa e alle manifestazioni anti-russe nel marzo-aprile 2022», la «distribuzione di letteratura con appelli a violare l’integrità territoriale della Federazione Russa», la «partecipazione attiva nella regione di Zaporizhzhia alle attività delle organizzazioni estremiste e alla propaganda delle idee neonaziste».
Oltre a interdire ogni azione, le autorità di occupazione hanno stabilito di «trasferire i beni mobili e immobili e i terreni della Chiesa all’amministrazione militare-civile»; di «rescindere i contratti di locazione dei locali e dei terreni che la Chiesa greco-cattolica ucraina aveva precedentemente concluso con le autorità locali»; di «non registrare la comunità religiosa “Chiesa greco-cattolica ucraina” presso le autorità di occupazione della regione» e quindi di fatto di dichiararla illegale. L’”ordine” elenca anche le realtà ecclesiali che dovranno cessare le loro iniziative di sostegno alla popolazione nei territori occupati e non occupati: Caritas, Caritas Canada, Caritas Usa, Caritas Polska, Caritas Repubblica Ceca, Caritas-Donetsk e Caritas-Melitopol. Il controllo sull’attuazione del provvedimento è affidato al vice di Balytsky.
Nella regione di Zaporizhzhia la Chiesa greco-cattolica è da tempo un obiettivo delle autorità russe. Nel dicembre 2022 erano stati deportati dalla città occupata di Melitopol tutti i sacerdoti greco-cattolici rimasti a prestare servizio, fra cui il giovane padre Oleksandr Bogomaz. E il mese precedente, il 16 novembre 2022, due religiosi redentoristi, padre Ivan Levytskyi e padre Bohdan Geleta, era stati arrestati a Berdyansk, città affacciata sul mare d’Azov nella parte occupata dell’oblast, dove svolgevano il loro ministero. Da oltre un anno entrambi i sacerdoti «sono prigionieri in Russia», fa sapere la Chiesa greco-cattolica. «Li hanno presi in ostaggio, portati via. Da allora non abbiamo nessuna notizia. Tra l’altro uno di loro ha una grave forma di diabete. Per loro preghiamo ogni giorno e per tutti coloro che sono prigionieri», racconta il vescovo ausiliare dell’esarcato di Donetsk, Maksym Ryabukha, che vive in esilio nel capoluogo dell’oblast, a cinquanta chilometri dal fronte. Il vescovo ricorda «tutti i civili catturati dai russi, torturati e maltrattati. Non riusciamo neanche a trattare per uno scambio visto che l’esercito ucraino non prende in ostaggio i civili russi. E questo è uno dei tanti drammi della guerra: l’ingiustizia».
(di Giacomo Gambassi mercoledì 13 dicembre 2023 Avvenire)
MYANMAR - Loikaw: l’esercito mantiene la presa sulla cattedrale, il vescovo rifugiato ‘in foresta’
Mons. Celso Ba Shwe, dopo essere stato testimone della devastazione totale della cattedrale di Cristo Re, ha abbandonato la città. La dissacrazione dei soldati nei confronti dei luoghi di culto ha impressionato anche i buddhisti, raccontano fonti di AsiaNews. Nel frattempo la Cina sta cercando di mediare colloqui di pace tra la giunta golpista e le milizie della resistenza, al momento con scarso successo.
A due settimane ormai dalla dichiarazione in cui raccontava l’attacco dell’esercito birmano contro la cattedrale di Cristo Re a Loikaw, capitale dello Stato Kayah, il vescovo Celso Ba Shwe resta rifugiato in un luogo sicuro nella foresta birmana, raccontano fonti di AsiaNews. Le immagini che sono circolate in seguito alla devastazione della chiesa hanno scioccato anche i birmani buddhisti: “I soldati hanno dato prova di essere dissacratori veri e propri”, hanno raccontato le fonti.
Lo stesso vescovo era riuscito a tornare alla chiesa per recuperare alcuni documenti e ha trovato la devastazione più totale. “Segni di morte e di dissacrazione sono stati trovati all’interno della chiesa”, hanno detto le fonti, citando anche lo stupro di donne i cui corpi dilaniati sono stati ritrovati nei pressi della cattedrale. “Diverse volte le autorità di fatto del Myanmar avevano chiesto al vescovo di Loikaw di utilizzare il compound della cattedrale come base militare operativa”. L’esercito si è alla fine preso il luogo di culto con la forza.
“La città ora è spaccata in due”, hanno proseguito le fonti, secondo cui le truppe mantengono il controllo sulla chiesa e i dintorni, “un territorio vasto”, mentre le milizie della resistenza anti-golpe, guidate dalla Karenni Nationalities Defense Force, stanno combattendo per ottenere il totale controllo di Loikaw. “Le percentuali che circolano sulla riconquista del territorio non possono essere considerate affidabili perché sono inverificabili. Ciò che è certo - hanno proseguito i contatti locali - è che ora si combatte veramente ovunque e i controlli sono diventati ancora più stringenti”. In altre parole, in ogni strada i civili vengono ispezionati in maniera dettagliata da parte dei soldati.
“I birmani si distinguono per i loro silenzi, ma il silenzio attorno ad alcune vicende sta aumentando”, hanno continuato le fonti di AsiaNews. “Le persone stanno subendo l’esperienza della guerra in maniera ancora più diretta. Coloro che in questi anni si sono presi cura dei più fragili e dei vulnerabili, come i bambini, gli sfollati e i minori senza famiglia, coloro che sono rimasti soli, stanno crollando sotto il peso del loro dolore e di quello delle persone di cui si sono fatti carico. E questo aumenta ancora di più il silenzio, perché il male e la violenza spaventano, diventano indicibili e attaccano a livello emotivo le persone dall’interno”. Migliaia di sfollati continuano a migrare da una regione all’altra nel tentativo di evitare i bombardamenti. All’interno della diocesi di Loikaw, circa 26 delle 41 parrocchie sono state del tutto abbandonate.
Nel frattempo la Cina, che aveva finora evitato il coinvolgimento diretto nel conflitto, nei giorni scorsi ha dichiarato di aver mediato i colloqui tra l’esercito golpista e le tre milizie etniche che il 27 ottobre (esattamente un mese prima dell’attacco alla cattedrale di Loikaw da parte dell’esercito) hanno lanciato nel nord del Myanmar l’Operazione 1027, un’offensiva congiunta per la riconquista del Paese.
Da settimane i combattimenti infuriano nello Stato Shan settentrionale. dove sono stati registrati almeno 30mila sfollati interni. L’Arakan Army, la Myanmar National Democratic Alliance Army e la Ta’ang National Liberation Army, che formano quella che ha preso il nome dell’Alleanza della Fratellanza, hanno attaccato una serie di avamposti lungo il confine tra Myanmar e Cina, bloccando il commercio transfrontaliero e provocando una certa preoccupazione a Pechino. Dopo la notizia riguardo i colloqui di pace (di cui un secondo round dovrebbe svolgersi entro la fine del mese), però, ieri le tre milizie hanno riaffermato la volontà di sconfiggere il regime militare al potere. “Sono stati compiuti progressi significativi, ma raggiungere i nostri obiettivi completi richiede più tempo e sforzi continui”, hanno scritto le tre milizie sul social X, senza menzionare i colloqui. “Il nostro impegno rimane forte nei confronti dell’intera popolazione del Myanmar”.
(AsiaNews14/12/2023)