L’uomo moderno l’aspetta ancora questa vita eterna
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In poche argomentazioni biblico - teologiche, in nome della fede cattolica, ma anche con una attenzione ad ogni uomo in tutte le sue forme ed espressioni religioso-culturali, storiche, filosofiche, etiche, morali, Benedetto XVI all’Angelus del 1 novembre ha interpellato e provocato tutti pastoralmente e profeticamente, enunciando con chiarezza qual è il pensiero della Chiesa cioè di Cristo espresso nella conclusione del Credo: “Aspetto la…vita del mondo che verrà. Amen”.
Trovo splendido lo stile omiletico essenziale di Benedetto XVI e concordo con le osservazioni del professore Gaspare Mura, ermeneuta e filosofo delle Religioni alla Pontificia Università Lateranense e all’Urbaniana di Roma, pubblicate su Il Foglio del 1 novembre 2006.
Nel linguaggio proprio del magistero di Benedetto XVI c’è una continuità di stile con tutta la grande Tradizione della Chiesa per cui diacronicamente ci si sente in comunione con tutti i tempi, con Agostino, Tommaso, Bonaventura, Rosmini, Maritain e sincronicamente con tutti coloro che puntano oggi allo stesso pensiero di Cristo trasmesso in continuità dinamica dalla Chiesa con il Catechismo. E’ il linguaggio dei Padri e dei Dottori della Chiesa. Come i Dottori, esprime con chiarezza concettuale i contenuti della Rivelazione nella continuità dinamica della Tradizione; come i Padri nell’annuncio va direttamente al cuore del problema, senza giri di parole, ed evitando accuratamente quell’uso retorico e abbondante di espressioni, al quale si rifà molta cultura contemporanea.
Per questo alcuni, abituati ad un altro stile, possono far fatica a capirlo. La difficoltà maggiore, però, viene soprattutto dall’attuale abbandono della “filosofia classica”. Benedetto XVI è in continuità con quella “filosofia perenne” della tradizione cattolica, secondo la quale la ragione, il logos, punta alla comprensione della totalità del reale in tutti gli ambiti. A differenza e non contro la metodologia delle scienze, la filosofia punta a conoscere in modo razionale le cause e i principi non di questa o quella realtà, ma di tutta la realtà in ogni ambito o verità cui ogni io è originariamente aperto: totale contemplazione della realtà o verità da cui deriva l’importanza, anche per chi crede per l’incontro con la Persona di Cristo risorto nella Sua Chiesa, di esercitare la ragione, di sviluppare il pensiero per comprendere in qualche modo ciò che crede e da cui deriva la retta valutazione dell’agire morale, dicibile, con argomentazione umana, a tutti.
La Rivelazione di Dio dal volto umano in Gesù Cristo interpella l’intelligenza cioè la seconda ala verso la risposta alle domande fondamentali di ogni io umano: da dove vengo nascendo? Dove vado morendo? C’è una liberazione totale dal male? C’è un al di là della morte biologica non solo per l’anima ma anche per il corpo? Possiamo aspettare nel futuro una vita eterna? “Vita eterna” - ha spiegato Benedetto XVI - per noi cristiani non indica però solo una vita che dura per sempre, bensì una nuova qualità di esistenza, pienamente immersa nell’amore di Dio che libera dal male e dalla morte e ci pone in comunione senza fine con tutti i fratelli e le sorelle che partecipano dello stesso Amore”. Vivere nell’attesa della vita eterna non distoglie dall’immediato perché con la risurrezione di Cristo questa dimensione pasquale della vita è già accaduta e noi siamo già partecipi oggettivamente fin dal Battesimo e da tutto il settenario sacramentale della dimensione di vita profondamente nuova che dura eternamente. E questo è già, se oltre che oggettivamente nei sacramenti anche soggettivamente in vissuti fraterni che donano un presentimento della vita da risorti, “un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé. Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione, che è opera di Dio e non nostra. Essa giunge a noi mediante la fede e il sacramento del Battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una vita nuova. E’ ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (2,20). E’ stata cambiata così la mia identità essenziale e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3,28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale. La nostra vocazione e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito santo ha intrapreso in noi con il Battesimo: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori di gioia e della speranza cristiana nel mondo, in concreto, in quella comunità di uomini entro la quale viviamo” (Benedetto XVI, Verona 19 ottobre 2006). Abbiamo ascoltato alla televisione questo intervento di Benedetto XVI fraternamente insieme, noi di un vissuto fraterno che alimenta la conoscenza della propria vita di fede alla luce del Compendio, e immediatamente ci siamo riconosciuti constatando che aspettando la vita del mondo futuro che verrà, questa vita è già presente al centro della nostra vita terrena e temporale, quando la nostra anima, mediante la grazia, è unita sempre a Dio: piedi sulla terra, ma il cuore già nel Cielo, definitiva dimora degli amici di Dio.
Abbiamo voluto, alcuni di noi, confrontarci con un altro gruppo molto impegnato nel volontariato ma senza un’anima ecclesiale, caratterizzati da una forte “secolarizzazione interna”, con forti dubbi sulla fecondità anche storica dell’aspettare la vita del mondo che verrà e quindi dubbi rispetto alla risurrezione della carne, al giudizio particolare e finale, al purgatorio, alla possibilità di condanna eterna (inferno) o di eterna beatitudine (paradiso). Favorevoli ad una conoscenza solo razionale della Rivelazione, un umanesimo immanentista applicato a Gesù Cristo, un’interpretazione solo sociologica della Chiesa. Un soggettivismo e relativismo secolarizzato nella morale cattolica. E abbiamo constatato, però, un’inquietudine addirittura drammatica di essere talmente assorbiti dagli impegni di volontariato, protagonisti di gesti anche significativi, che per loro è difficile pensare a Dio protagonista della storia e della nostra stessa vita, all’essenza specificamente cristiana di Gesù Figlio del Dio vivente, alla sua presenza reale nella Chiesa e alla sua vita come paradigma della condotta morale: tutti i grandi personaggi contribuiscono alla pari. Sembra che protagonista debba essere solo l’uomo.
Però ciò che li ha colpiti è questo essere protesi a qualcosa di più grande di quello che esperimentano. E noi dobbiamo riconoscere in loro un grande anelito alla giustizia, alla verità, alla felicità piena.
Certo dinnanzi all’enigma della morte, vivo è anche in loro il desiderio e la speranza di ritrovare nell’al di là i propri cari (e questo è già molto), come pure un giudizio finale che ristabilisca la giustizia, un definitivo confronto in cui a ciascuno sia dato quanto gli è dovuto, questo li ha interessati e forse, frequentandoli, potrebbe maturare la convinzione che la cultura attuale non può essere un criterio assoluto di giudizio in rapporto alla Rivelazione, al Vangelo, soprattutto quando ritiene che aspettare la vita eterna, il giudizio di Dio, il paradiso, il purgatorio, il rischio infernale appartengano a una mitologia ormai superata e da dissolvere come alienante. È piuttosto una fede pienamente accolta, vissuta e pensata che è capace di giudicare la cultura imperante ed è sempre il Vangelo che conduce le culture alla piena verità, senza assumere acriticamente i loro principi.
Però queste cose, pur necessarie, non basta pensarle, discuterle, tentando di viverle, “deve esserci l’adorazione, che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire. Nell’unione a Cristo ci precede e ci guida la Vergine Maria, tanto amata e venerata in ogni contrada d’Italia. In lei incontriamo, pura e non deformata, la vera essenza della Chiesa e così, attraverso di Lei, impariamo a conoscere e ad amare il mistero della Chiesa che vive nella storia, ci sentiamo fino in fondo parte di essa, diventiamo a nostra volta “anime ecclesiali”, impariamo a resistere a quella “secolarizzazione interna” che insidia la Chiesa del nostro tempo, in conseguenza dei processi di secolarizzazione che hanno profondamente segnato la civiltà europea”.
Con speranza abbiamo sentito che alcuni di essi vanno a Medjugorje. Può essere anche questa, sotto la preminente e decisiva azione guida dello Spirito, una “circostanza” per quell’incontro con Cristo che cambia e trasfigura ravvivando il gioioso sentimento della comunione dei Santi, lasciandoci attrarre da loro verso l’unica meta della nostra esistenza: l’incontro faccia a faccia con Dio. “Preghiamo - ha concluso il Papa all’Angelus del 1 novembre - che questa sia l’eredità di tutti i fedeli defunti, non soltanto i nostri cari, ma anche di tutte le anime, specialmente quelle più dimenticate e bisognose della misericordia divina. La Vergine Maria, Regina di Tutti i Santi, ci guidi a scegliere in ogni momento la vita eterna, la “vita del mondo che verrà” - come diciamo nel Credo; un mondo già inaugurato dalla risurrezione di Cristo, e di cui possiamo affrettare l’avvento con la nostra conversione sincera e le opere di carità”.