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Cristo risorto è sempre contemporaneo, vivo nella successione degli apostoli

Autore:
Oliosi, Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
«Il gesto dell'imposizione della mani può avere vari significati. Nell'Antico Testamento il gesto ha soprattutto il significato di trasmettere un incarico importante, come fece Mosé con Giosué (Nm 27,18-23), designando così il suo successore. In questa linea anche la Chiesa di Antiochia utilizzerà questo gesto per inviare Paolo e Barnaba in missione ai popoli del mondo (At 13,3). Ad una analoga imposizione della mani su Timoteo, per trasmettergli un incarico ufficiale, fanno riferimento le due Lettere paoline a lui indirizzate (1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6). Che si trattasse di una azione importante, da compiere dopo discernimento, si desume da quanto si legge nella Prima Lettera a Timoteo: "Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui" (5,22). Quindi vediamo che il gesto dell'imposizione delle mani si sviluppa nella linea di un segno sacramentale. Nel caso di Stefano e compagni si tratta certamente della trasmissione ufficiale, da parte degli Apostoli, di un incarico e insieme dell'implorazione di una grazia per esercitarlo» [Benedetto XVI, Udienza generale, 10 gennaio 2007].

Si stanno diffondendo - rilevano i Vescovi spagnoli in Teologia e secolarizzazione… - concezioni erronee sul ministero ordinato nella Chiesa. Tramite l’applicazione di un metodo esegetico scorretto, si separa Cristo dalla Chiesa, come se non fosse nella volontà di Gesù Cristo fondare la sua Chiesa. Una volta rotto il vincolo tra la volontà di Cristo e la Chiesa, si cerca l’origine della costituzione gerarchica della Chiesa in ragioni puramente umane, frutto di mere congiunture storiche. S’interpreta così la testimonianza biblica sulla base di presupposti ideologici, selezionando alcuni testi ed elementi e dimenticandone altri.
La terza ondata della deellenizzazione, definita da Benedetto XVI a Regensburg “grossolana e imprecisa”, sta diffondendosi attualmente, in rapporto con il problema dell’incontro del cristianesimo con le molteplici culture del mondo: la sintesi compiutasi nella Chiesa antica sarebbe una prima inculturazione, da cui occorrerebbe liberarsi, ritornando al semplice messaggio del Nuovo Testamento per inculturarlo di nuovo nei diversi contesti socio - culturali. Applicando il metodo esegetico relativizzando il legame tra fede e ragione instauratosi fin dal momento apostolico della tradizione, ritenendolo soltanto contingente e quindi superabile, si parla di “modelli di Chiesa” che sarebbero presenti nel Nuovo Testamento: di fronte alla Chiesa delle origini, “caratterizzata dal discepolato e dal carisma”, libera da vincoli, sarebbe nata poi la Chiesa “istituzionale e gerarchica”. Il modello di Chiesa “gerarchica, legale, piramidale”, sviluppatasi fuori dalla linea di un segno sacramentale e quindi distante dalle affermazioni neotestamentarie, che invece porrebbero l’accento sulla comunità e pluralità di carismi e ministeri, così come sulla fraternità cristiana, intesa nel suo complesso come tutta sacerdotale e consacrata. E quindi si diffonde l’idea di un ministero episcopale come una semplice abilitazione ministeriale, funzionale, senza alcuna qualificazione ontologica cioè sacramentale tale da rendere visibile “qui e ora” Cristo risorto nel suo essere sommo sacerdote della nuova alleanza (Eb 4,14-15; 7,26-28; 8-9). E’ il ministero apostolico testimoniato - come ricorda il Papa nella catechesi del 10 gennaio 2007 - chiaramente nel Nuovo Testamento. E qui si trovano riferimenti all’incorporazione nel ministero mediante l’imposizione delle mani (At 14,23; 1 Tm 4,14). Ecco il perché della raccomandazione: “Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui”. “In un certo senso - Benedetto XVI all’Udienza generale del 15 marzo 2006 - possiamo dire che proprio l’Ultima Cena è l’atto di fondazione della Chiesa, perché Egli dà se stesso e crea una nuova comunità, una comunità unita nella comunione con Lui stesso. In questa luce, si comprende come il Risorto conferisce loro - con l’effusione dello Spirito - il potere di rimettere i peccati (Gv 20,23). I dodici apostoli sono così il segno più evidente della volontà di Gesù riguardo all’esistenza e alla missione della sua Chiesa, la garanzia che fra Cristo e la Chiesa non c’è alcuna contrapposizione: sono inseparabili, nonostante i peccati degli uomini che compongono la Chiesa. (…) Tra il Figlio di Dio fatto carne e la sua Chiesa v’è una profonda, inscindibile e misteriosa continuità, in forza della quale Cristo è presente oggi nel suo popolo. E’ sempre contemporaneo a noi, è sempre contemporaneo nella Chiesa costruita sul fondamento degli apostoli, è vivo nella successione degli apostoli. E questa sua presenza nella comunità, nella quale Egli stesso si dà sempre a noi, è motivo della nostra gioia. Sì, Cristo è con noi, il Regno di Dio viene”. Quando questo non solo si dice, si sostiene dialetticamente in rapporto ad argomentazioni bibliche e teologiche ben lontane, ma lo si esperimenta in un rapporto di autentica filiazione e amicizia con il vescovo, “soprattutto partecipando alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri” (SC, n. 41). Gli corrisponde Lumen gentium n. 26: “ogni volta che si riunisce la comunità dell’altare sotto il sacro ministero del vescovo, appare il simbolo di quella carità e “unità del corpo mistico, senza la quale non può esservi salvezza”. E il testo prosegue aggiungendo subito anche quello che avviene in ogni parrocchia, in ogni movimento ecclesiale riconosciuto che conviene in unione con il vescovo per la celebrazione dell’Eucaristia: “in queste comunità, anche se spesso piccole e povere o viventi nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”.
Attraverso il vescovo l’inserimento nella chiesa universale, nella chiesa degli apostoli
C’è un altro elemento importante del rapporto del vescovo non solo con i suoi sacerdoti, ma anche con tutti i fedeli alla luce del capitolo ottavo degli Atti degli Apostoli. Filippo convertì alla fede in Cristo gli uomini in Samaria e li battezzò. Alla notizia di questa conversione gli apostoli mandarono là Pietro e Giovanni. Con la preghiera e l’imposizione delle mani invocarono sui neocristiani lo Spirito santo, che non era ancora venuto su di loro; solo così vennero aggregati pienamente nella chiesa di Gesù Cristo (At 8,5-17). Così Joseph Ratzinger commenta in Dogma e predicazione, p. 220: “Egli (Luca) vuol dire che nella cristianizzazione dei Samaritani ha un ruolo costitutivo il loro inserimento nella chiesa apostolica universale, la loro unione con la totalità e in special modo con l’origine apostolica e con i garanti autorizzati di questa origine. Ciò significa che nessuno può essere cristiano per sé solo, ma soltanto insieme con gli altri, con la comunità vivente dei credenti; così pure nessuna comunità, nessuna regione da sola può essere chiesa: lo può soltanto nell’apertura all’universalità e grazie all’inserimento nella tradizione apostolica, della quale sono garanti gli apostoli e i loro successori. Usando le classiche parole del Credo si può affermare che sono componenti necessarie della chiesa sia la cattolicità che l’apostolicità, l’unione viva con la totalità che si presenta e si realizza nell’unità di coloro che ricoprono un ufficio. La Chiesa non esiste soltanto qui ma su tutta la terra; chiesa non c’è soltanto oggi, ma ieri e domani. Soltanto dove sono accolte ambedue queste esigenze, l’unità con gli altri, con la totalità e la unità con coloro che credettero prima di noi, l’unità con la chiesa di tutti i tempi, lì esiste veramente chiesa. Espressione e garanzia di questa relazione è l’ufficio dei vescovi. Essi personificano, con al vertice il successore di Pietro, l’unità di tutte le singole chiese locali tra di loro e con l’origine apostolica. La distinzione tra vescovi e preti esprime appunto il fatto che nella chiesa esistono non soltanto molte comunità l’una accanto all’altra, ma che si appartengono a vicenda. Ritorniamo ancora una volta così all’episodio degli Atti degli apostoli. La chiesa occidentale ha riservato di regola ai vescovi la cresima come completamento del battesimo per chiarire che il diventare cristiani esprime un inserimento nella chiesa universale, nella chiesa degli apostoli. Per questo motivo non viene amministrata dal rispettivo parroco del luogo, ma dal rappresentante dell’universalità, dal testimone visibile dell’unità e della continuità della chiesa intera”.
Quanto è diverso questo modo catechistico di argomentare biblico e teologico da quel modo di presentare la Chiesa e il ministero episcopale che non avrebbe fondamento reale né nella sacra Scrittura, né nella tradizione ecclesiale e deforma gravemente il disegno di Dio sul corpo di Cristo che è la Chiesa, portando i fedeli su posizioni di scontro dialettico, come sta avvenendo in Polonia e di riflesso in tante parti del mondo. In quest’ottica, la ricchezza di carismi e ministeri suscitati dallo Spirito Santo non si considera più in comunione con il Vescovo che con il sacramento ha ricevuto una qualificazione non solo funzionale ma ontologica con la quale rende presente Cristo sommo sacerdote della nuova alleanza e a favore del bene di tutti (1 Cor 12,4-12), bensì come espressione di soluzioni umane che rispondono più a lotte di potere che alla volontà positiva del Signore.

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