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Sintesi tra comunione della Chiesa all’interno e missione del Vangelo per gli altri

Autore:
Oliosi, Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
«Ignazio è veramente il “dottore dell’unità”: unità in Dio e unità di Cristo (a dispetto delle varie eresie che iniziavano a circolare e dividevano l’uomo e Dio in Cristo), unità della Chiesa, unità dei fedeli “nella fede e nella carità, delle quali non vi è nulla di più eccellente” (Smirnesi 6,1). In definitiva, il “realismo” di Ignazio invita i fedeli di ieri e di oggi, invita noi tutti a una sintesi progressiva tra configurazione a Cristo (unione con Lui, vita in Lui) e dedizione alla sua Chiesa (unità con il Vescovo, servizio generoso alla comunità e al mondo). Insomma, occorre pervenire a una sintesi tra comunione della Chiesa all’interno di sé e missione proclamazione del Vangelo per gli altri, fino a che attraverso una dimensione parli l’altra, e i credenti siano sempre più “nel possesso di quello spirito indiviso, che è Gesù Cristo stesso” (Magnesi 15). Implorando dal Signore questa “grazia di unità”, e nella convinzione di presiedere alla carità di tutta la Chiesa (Romani, prologo), rivolgo a voi lo stesso augurio che conduce la lettera di Ignazio ai cristiani di Tralli: “Amatevi l’un l’altro con cuore indiviso. Il mio spirito si offre in sacrificio per voi, non solo ora, ma anche quando avrò raggiunto Dio… In Cristo possiate essere trovati senza macchia” (13). E preghiamo affinché il Signore ci aiuti a raggiungere questa unità e ad essere trovati finalmente senza macchia, perché è l’amore che purifica le anime» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 14 marzo 2007].

Rifacendosi alla Tradizione apostolica attraverso le personalità della Chiesa nascente, dopo Papa Clemente I, terzo successore di san Pietro, Benedetto XVI ha parlato di sant’Ignazio, terzo vescovo di Antiochia, dal 70 al 107, data del suo martirio. In quel tempo Roma, Alessandria e Antiochia erano le tre grandi metropoli dell’impero romano e partecipi, in un certo senso a un “primato” nella Chiesa. Sant’Ignazio era Vescovo di Antiochia, che oggi si trova in quella terra santa della Chiesa, che è la Turchia. Primo Vescovo di Antiochia fu l’apostolo Pietro e lì “per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani” (At 11, 26). Secondo Eusebio di Cesarea del IV secolo “Ignazio fu mandato a Roma per essere gettato in pasto alle belve, a causa della testimonianza da lui resa a Cristo. Compiendo il suo viaggio attraverso l’Asia, sotto la custodia severa delle guardie (che lui chiama “dieci leopardi” nella sua Lettera ai Romani 5,1), “nelle singole città dove sostava, con prediche e ammonizioni, andava rinsaldando le Chiese; soprattutto esortava, col calore più vivo, di guardarsi dalle eresie, che allora cominciavano a pullulare, e raccomandava di non staccarsi dalla tradizione apostolica”. Smirne, dove era Vescovo san Policarpo, discepolo di san Giovanni, è stata la prima tappa. Qui Ignazio scrisse quattro lettere, rispettivamente alle Chiese di Efeso, di Magnesia, di Tralli e di Roma. Da Smirne venne a Troade da dove spedì nuove lettere: due alla Chiesa di Filadelfia e di Smirne, e una al Vescovo Policarpo. Queste lettere sono venute a noi dalla Chiesa del primo secolo come prezioso tesoro di Tradizione. Leggendo questi testi si sente lo stupore e la freschezza della fede della generazione che ancora aveva conosciuto gli Apostoli. Si sente anche in queste lettere l’amore ardente di un santo che giunse a Roma e nell’Anfiteatro Flavio venne dato in pasto alle bestie feroci.
Nessun Padre della Chiesa ha espresso con l’intensità di Ignazio l’anelito all’unione con Cristo e alla vita in Lui. Due correnti spirituali confluiscono in Ignazio. Quella di Paolo, tutta tesa all’unione con Cristo, e quella di Giovanni, concentrata sulla vita in Lui. E queste due correnti sfociano nell’assimilazione, nell’imitazione di Cristo, più volte proclamato da Ignazio come “il mio” o “il nostro Dio”. Così Ignazio supplica i cristiani di Roma di non impedire il suo martirio, perché è impaziente di “congiungersi con Gesù Cristo”. E spiega: “E’ bello per me morire andando verso (eis) Gesù Cristo, piuttosto di regnare fino ai confini della terra. Cerco lui, che è morto per me, voglio lui, che è risorto per noi…Lasciate che io sia imitatore della Passione del mio Dio!” (Romani 5-6). Si può cogliere in queste espressioni brucianti d’amore lo spiccato “realismo” cristologico tipico della Chiesa di Antiochia, più che mai attento all’incarnazione del Figlio di Dio e alla sua vera e concreta umanità: Gesù Cristo, scrive Ignazio agli Smirnesi, “è realmente della stirpe di Davide”, “realmente è nato da una vergine”, “realmente fu inchiodato per noi” (1,1).
L’unità dei cristiani si rifà all’archetipo divino della Trinità
L’irresistibile tensione di Ignazio verso l’unione con Cristo fonda una vera e propria “mistica dell’unità”. Egli stesso si definisce “un uomo al quale è stato affidato il compito dell’unità” (Filadelfiesi 8,1). Per Ignazio l’unità è anzitutto una prerogativa di Dio, che esistendo in tre Persone è Uno nel suo Essere, in assoluta unità. Egli ripete spesso che Dio è unità, e che solo in Dio, che esistendo in tre Persone è Uno, in assoluta unità d’essere. Egli ripete spesso che Dio è unità, e che solo in Dio si trova allo stato puro e originario. L’unità da realizzare su questa terra da parte dei cristiani non è altro che un’imitazione, il più possibile conforme all’archétipo divino. In questo modo Ignazio giunge ad elaborare una visione della Chiesa, che richiama da vicino alcune espressioni della Lettera ai Corinti di Clemente Romano. “E’ bene per voi”, scrive per esempio ai cristiani di Efeso, “procedere insieme d’accordo col pensiero del vescovo, cosa che già date. Infatti il vostro collegio di presbiteri, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al vescovo come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico Gesù Cristo è cantato. E così voi, ad uno ad uno, diventate coro, affinché nella sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell’unità, cantiate a una sola voce” (4,1-2). E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non “intraprendere nulla di ciò che riguarda la Chiesa senza il vescovo” (8,1), confida a Policarpo: “io offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi. Possa io con loro aver parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro battesimo rimanga come uno scudo, la vostra fede come un elmo, la carità come una lancia, la pazienza come un’armatura” (6,1-2).

Comunione dei fedeli tra loro e con i propri pastori
Benedetto XVI sottolinea come nelle Lettere di Ignazio si colga una dialettica costante e feconda tra due aspetti caratteristici della vita cristiana: da una parte la struttura gerarchica della comunità ecclesiale, e dall’altra l’unità fondamentale che lega fra loro tutti i fedeli in Cristo. Di conseguenza, i ruoli non si possono contrapporre. Al contrario, l’insistenza sulla comunione dei credenti tra loro e con i propri pastori è continuamente riformulata attraverso eloquenti immagini e analogie: la cetra, le corde, l’intonazione, il concerto, la sinfonia. E’ evidente la responsabilità peculiare dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi nella edificazione della comunità Vale anzitutto per loro l’invito all’amore e all’unità. “Siate una cosa sola”, scrive Ignazio ai Magnesi, riprendendo la preghiera di Gesù nell’Ultima Cena: “Un’unica supplica, un’unica mente, un’unica speranza nell’amore… Accorrete tutti a Gesù Cristo come all’unico tempio di Dio, come all’unico altare: egli è uno e procedendo dall’unico Padre, è rimasto a Lui unito, e a Lui ritornato nell’unità” (7,1-2).
Ignazio per primo nella letteratura cristiana, attribuisce alla Chiesa l’aggettivo “cattolica”, cioè “universale”: “Dove è GesùC risto”, egli afferma, “lì è la Chiesa cattolica” (Smirnesi 8,2). E proprio nel servizio di unità della Chiesa cattolica, la comunità cristiana di Roma, in rapporto ai “primati” di Antiochia e Alessandria, esercita una sorta di primato nell’amore: “In Roma essa presiede degna di Dio, venerabile, degna di essere chiamata beata… Presiede alla carità, che ha legge di Cristo e porta il nome di Padre” (Romani, prologo).
L’“onore” del primo non deve essere inteso nel senso dell’onore protocollare mondano, ma l’onore nella Chiesa è il servizio, è l’onore dell’obbedienza a Cristo. E cosi il presiedere alla carità o Agape non è un sentimento non vincolante, meno ancora una organizzazione sociale, ma un concetto eucaristico, che come tale è legato alla teologia della Croce. E’ dalla Croce, infatti, che viene l’Eucaristia, la Croce è l’espressione suprema dell’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Se la Chiesa nella sua realtà più profonda viene a coincidere con l’Eucaristia, allora il Presiedere alla carità della Chiesa di Roma è una responsabilità per l’unità intraecclesiale e allo stesso tempo una responsabilità testimoniale rispetto al mondo.

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