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Dio ha compiuto il sacro scambio…

Autore:
Oliosi, Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
«… “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). Ecco ciò che si compie nel Battesimo: noi ci rivestiamo di Cristo, Egli ci dona i suoi vestiti e questi non sono una cosa esterna. Significa che entriamo in una comunione esistenziale con Lui, che il suo e il nostro essere confluiscono, si compenetrano a vicenda. “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”… Questa teologia del Battesimo ritorna in modo nuovo e con una nuova esistenza nell’Ordinazione sacerdotale. Come nel Battesimo viene donato uno “scambio dei vestiti”, uno scambio del destino, una nuova comunione esistenziale con Cristo, così anche nel sacerdozio si ha uno scambio: nell’amministrazione dei Sacramenti, il sacerdote agisce e parla “in persona Christi”. Nei sacri misteri egli non rappresenta se stesso e non parla esprimendo se stesso, ma parla per l’Altro - per Cristo» [Omelia di Benedetto XVI nella Santa Messa del Crisma, 5 aprile 2007].

«In persona Christi - nel momento dell’Ordinazione sacerdotale, la Chiesa ci ha reso visibile ed afferrabile questa realtà dei “vestiti nuovi” anche esternamente mediante l’essere rivestiti con i paramenti liturgici. In questo segno esterno essa vuole renderci evidente l’evento interiore e il compito che da esso viene: rivestire Cristo; donarsi a Lui come Egli si è donato a noi. Questo evento, il “rivestirsi di Cristo”, viene rappresentato sempre di nuovo in ogni Santa Messa mediante il rivestirci dei paramenti liturgici. Indossarli deve essere più di un fatto esterno: è l’entrare sempre di nuovo nel “sì” del nostro incarico - in quel “non più io” del battesimo che l’Ordinazione sacerdotale ci dona in modo nuovo e al contempo ci chiede. Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti che stiamo lì “in persona di un Altro”. Gli indumenti sacerdotali, così come nel corso del tempo si sono sviluppati, sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa. Vorrei pertanto, cari confratelli, spiegare in questo Giovedì Santo l’essenza del ministero sacerdotale interpretando i paramenti liturgici che, appunto, da parte loro vogliono illustrare che cosa significhi “rivestirci di Cristo”, parlare e agire in persona Christi».

In questa Pasqua Benedetto XVI ha voluto porre in rilievo il dono del sacerdozio ministeriale lasciato da Cristo alla sua Chiesa, la vigilia della morte in croce. E per ogni sacerdote, convenire fraternamente insieme alla Messa Crismale è un momento commovente alla vigilia della Passione, nella quale il Signore ci ha dato se stesso, ci ha dato il sacramento dell’Eucaristia, ci ha dato il Sacerdozio, ci ha dato il Comandamento nuovo cioè la possibilità di amarci con il suo amore dato in dono. C’è un connubio fra questi tre doni. Nel Cenacolo il Redentore volle anticipare in modo incruento quello che nel pomeriggio del giorno dopo sarebbe accaduto in modo cruento una volta per sempre là sul Calvario cioè il Sacramento del pane e del vino mutati nel suo Corpo e nel suo Sangue, il sacrificio redentore della sua vita: egli anticipa sacramentalmente questa sua morte, dona liberamente la sua vita, offre il dono definitivo di sé all’umanità. E comandando ai Dodici “fate questo in memoria di me”, istituisce il sacerdozio ministeriale chiamato a ripresentare, a rendere sacramentalmente presente in ogni luogo e in ogni tempo l’unico sacrificio avvenuto una volta per sempre sul Calvario. Con la lavanda dei piedi esemplifica il Comandamento nuovo cioè poter amare con il suo stesso amore significato dal gesto con cui Egli, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine (Gv 13,1) e lasciò ai discepoli come loro distintivo questo atto di umiltà, l’amore sino alla morte.
E con tratto pastorale, educativo, esistenziale Benedetto XVI ha voluto ricordare che l’indossare le vesti sacerdotali era una volta accompagnato da preghiere che possono ancora aiutarci a capire meglio anche soggettivamente i singoli elementi del ministero sacerdotale.

Amitto, camice e stola, casula
E ha cominciato con l’amitto. “In passato - e negli ordini monastici ancora oggi - esso veniva posto prima sulla testa, come una specie di cappuccio, diventando così un simbolo della disciplina dei sensi e del pensiero necessaria per una giusta celebrazione della Santa Messa. I pensieri non devono vagare qua e là dietro le preoccupazioni e le attese del mio quotidiano; i sensi non devono essere attirati da ciò che lì, all’interno della chiesa, casualmente vorrebbe sequestrare gli occhi e gli orecchi. Il mio cuore deve docilmente aprirsi alla Parola di Dio ed essere raccolto nella preghiera della Chiesa, affinché il mio pensiero riceva il suo orientamento dalle parole dell’annuncio e della preghiera. E lo sguardo del mio cuore deve essere rivolto verso il Signore che è in mezzo a noi: ecco cosa significa ars celebrandi - il giusto modo del celebrare. Se io sono col Signore, allora con il mio ascoltare, parlare ed agire attiro la gente dentro la comunione con Lui”.
Ancora più significativi si presentano i testi della preghiera che interpretano il camice e la stola. Evocano il vestito festivo che il padre donò al figlio prodigo tornato a casa cencioso e sporco. “Quando ci accostiamo alla liturgia per agire in persona di Cristo si accorgiamo tutti quanto siamo lontani da Lui; quanto sporcizia esiste nella nostra vita. Egli solo può donarci il vestito festivo, renderci degni di presiedere alla sua mensa, di stare al suo servizio”. Come ricorda l’Apocalisse secondo cui i vestiti dei 144.000 eletti non per merito loro erano degni di Dio, ma avevano lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello e in questo modo erano diventate candide come la luce (Ap 7,14). Il “sangue dell’Agnello” è l’amore del Cristo crocifisso. “E questo amore che rende candide le nostre vesti sporche; che rende verace ed illuminato il nostro spirito oscurato; che nonostante tutte le nostre tenebre, trasforma noi stessi in “luce nel Signore”. Indossando il camice dovremmo ricordarci: Egli ha sofferto anche per me. E soltanto perché il suo amore è più grande di tutti i miei peccati, posso rappresentarlo ed essere testimone della sua luce”, agendo in sua persona. Ma con il vestito di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo e, in modo nuovo, nell’Ordinazione sacerdotale, possiamo pensare anche al vestito nuziale, di cui Egli ci parla nella parabola del banchetto di Dio affollato di ospiti e in questa moltitudine c’è chi viene buttato eternamente fuori nelle tenebre perché senza abito nuziale. Tutti coloro che sono riuniti nella Chiesa hanno ricevuto l’abito nuovo del battesimo e della fede; altrimenti non sarebbero nella Chiesa. Ma al momento terminale della vita occorre anche il “vestito dell’amore”, il vestito color porpora del duplice amore verso Dio e verso il prossimo.
La preghiera tradizionale quando si riveste la casula vede rappresentato in essa il giogo del Signore e Lui ci invita a portare il suo giogo e ad imparare da Lui, che è “mite ed umile di cuore” (Mt 11,29). Portare il giogo del Signore significa innanzitutto: imparare da Lui, lasciarci assimilare a Lui, amare con il suo amore dato in dono dallo Spirito del Risorto a chi glielo chiede. Dio si è fatto uomo per rendersi conto di che cosa significa per noi l’obbedienza, voleva esperimentare su se stesso ciò che noi esperimentiamo. “A volte vorremmo dire a Gesù: Signore, il tuo giogo non è per niente leggero. E’ anzi tremendamente pesante in questo mondo: Ma guardando poi a Lui che ha portato tutto - che su di sé ha provato l’obbedienza, la debolezza, il dolore, tutto il buio, allora questi nostri lamenti si spengono. Il suo giogo è quello di amare con Lui. E più amiamo Lui, e con Lui diventiamo persone che amano, più leggero diventa per noi il suo giogo: chiedendo nella preghiera di aiutarci a diventare insieme con Lui persone che amano, sperimentiamo sempre di più quanto è bello portare il suo giogo, a cui la casula rimanda.

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