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Nessuno può arrogare a sé la prerogativa di identificarsi con l’“io” di Cristo e con l’“io” di Dio

Autore:
Oliosi, Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
«Nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. La sua risurrezione è stata dunque come una esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé.
Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione, che è opera di Dio e non nostra. Essa giunge a noi mediante la fede e il sacramento del Battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una vita nuova…”Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 3,28)…”Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata sul Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo» [Benedetto XVI al IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, 19 ottobre 2006].


Quanto è proprio e specifico della Chiesa non è il fatto che in essa si trovano persone simpatiche; il che è in verità sempre da augurarsi, e che potrà certo anche verificarsi. Quanto è proprio e specifico è la sua exusia (potestà): le è dato il potere, il mandato di pronunciare la Parola della salvezza cioè la Persona del Verbo e di continuare l’azione salvifica che redime l’uomo; parola ed azione di cui ogni uomo concreto ha bisogno e che, da se stesso, non è per niente in grado di attuare. Nessuno può arrogare a sé la prerogativa dell’esistenza cristiana “Io, ma non più io cioè di identificarsi con l’“io” di Cristo o con l’“io” di figlio di Dio. Ma è insieme a questo “io” che è, agisce pastoralmente e parla soprattutto il sacerdote, quando dice “Questo è il mio corpo”, o “Io ti assolvo dai tuoi peccati”. Non è il sacerdote che li assolve (ciò sortirebbe davvero poco effetto) bensì Dio: e questo, a dire il vero, cambia tutto.
Fa davvero rabbrividire il fatto che un uomo possa pronunciare con le sue labbra il pronome “io”, riferendolo a Dio nell’esistenza cristiana fondata sul Battesimo, nel ministero sacerdotale fondato sull’Ordine. Egli lo può fare solo, come fedele, appartenendo con gioia, con stupore a quella Chiesa che è sempre opera di Dio e non nostra, lo può fare, come ministro, solo sulla base di quel mandato che il Signore ha affidato alla sua Chiesa. Senza tale potestà, il prete non è altro che un assistente sociale. E ogni assistente sociale è certo persona degna di stima; nella Chiesa però noi aspiriamo a una speranza più alta, che proviene anche da un potere più grande.
Quando non si è memori di quello che è avvenuto una volta per sempre nel Battesimo, nell’esistenza cristiana cioè “Io, ma non più io” o questo non traspare nel vissuto ecclesiale fraterno, anche il calore umano della piccola cerchia amicale non sarà più di aiuto. L’essenziale è dimenticato: e il gruppo se ne accorgerà presto. Esso non può risparmiarsi il dolore della conversione, che ci incoraggia a fare ciò che noi di per sé non vorremmo: cambiare la propria identità essenziale ed esistere solo in questo cambiamento che ci introduce nella dimensione di ciò che è in potere di Dio. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza conforme a quello che il cuore veramente desidera. Diventiamo così “uno in Cristo”, un unico soggetto fraterno nuovo, e il nostro io viene liberato dalla sofferenza del proprio isolamento. Ma questo richiede una appartenenza totale, definitiva, entusiasta a concreti vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata.
E in forma più radicale il fondamento della vita sacerdotale feconda, felice, sta nel suo intimo legame al mandato ecclesiale, in atto di profonda obbedienza. Una fraternità sacramentale presbiterale che non voglia bene a se stessa, in continua dialettica, tensione, non può sussistere. E colui che, rivestito di un ufficio di amore pastorale, finisce per non essere più capace di servire gli altri né di realizzare quindi pienamente la sua propria esistenza.
Il fatto che la realtà della Chiesa, che negli anni del Concilio è parsa risvegliarsi in maniera tanto promettente nelle coscienze e tale oggi continua ad esserlo soprattutto nel dono di movimenti e nuove comunità, appaia a non pochi come qualcosa di estraneo, come un “grande apparato” alienante è drammatico. Ma lo è soprattutto quando colui che è rivestito di un ministero ecclesiale (che deve “personificare” l’istituzione e renderla presente con gioia e convinzione nella propria persona) diviene una barriera anziché una finestra aperta, si contrappone a essa, invece di far sì che, mediante il lasciarsi assimilare a Cristo e la lotta personale della sua fede personale, la Chiesa emerga come quel mondo nuovo prodotto dal risorto nel nostro mondo, trasformandolo e attirandolo a sé.
Diviene drammatico negli stessi sacerdoti che la contestano, che non possono godere dell’efficacia del loro ministero.
“Cari Ordinandi - Benedetto XVI all’ordinazione dei 22 diaconi della Diocesi di Roma il 29 aprile 2007 -, la certezza che Cristo non ci abbandona e che nessun ostacolo potrà impedire la realizzazione del suo universale disegno di salvezza sia per voi motivo di costante consolazione - anche nelle difficoltà - e di incrollabile speranza. La bontà del Signore è sempre con voi ed è forte. Il Sacramento dell’Ordine che state per ricevere vi farà partecipi (nella Chiesa), della stessa missione di Cristo; sarete chiamati a spargere il seme della sua Parola, il seme che porta in sé il Regno di Dio, a dispensare la divina misericordia e a nutrire i fedeli alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Per essere suoi degni ministri dovrete alimentarvi incessantemente dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. Accostandovi all’altare, vostra quotidiana scuola di santità, di comunione con Gesù, del modo di entrare nei suoi sentimenti, per rinnovare il sacrificio della Croce, scoprire sempre più la ricchezza e la tenerezza dell’amore del divino Maestro, che oggi vi chiama ad una più intima amicizia con Lui. Se lo ascolterete docilmente, se lo seguirete fedelmente, imparerete a tradurre nella vita e nel ministero pastorale il suo amore e la sua passione per la salvezza delle anime. Ciascuno di voi, cari Ordinandi, diventerà con l’aiuto di Gesù, pronto a dare, se necessario, anche la vita per lui. A voi Gesù ripete: Non vi chiamo più servi, ma amici”… Solo così è possibile essere immagini fedeli del Buon Pastore; solo così si può svolgere con gioia la missione di conoscere, guidare e amare il gregge che Gesù si è acquistato a prezzo del suo sangue”.

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