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Fede e ragione: la Resurrezione

Autore:
Oliosi, Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Nel connubio fede - ragione verso la verità la stadio più perfetto della ragione è proprio la professione di fede in quell’amore che ha vinto la morte cioè la risurrezione

«La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazaret, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi. Si tratta di un grande mistero, certamente, il mistero della nostra salvezza, che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza. Ma la cifra di questo mistero è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé» [Benedetto XVI al IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, 19 ottobre 2006].

Credo che questo sia il cuore dell’intervento del Papa a Verona e per comprenderlo di più è utile rifarsi a Introduzione al Cristianesimo da pagina 245 a pagina 253.
Un semplice sguardo al patrimonio classico mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, si impongono alla ragione le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono? Da dove vengo e dove vado? Perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? E la professione di fede nella Risurrezione ha la pretesa di confermare quell’amore che ha vinto la morte. Nell’Antico Testamento questa certezza è incastonata in un inno esaltante la forza dell’eros. Nelle sconfinate esigenze dell’eros, infatti, nelle sue apparenti esagerazioni e smodate brame, viene in realtà alla ribalta un problema fondamentale, anzi il problema fondamentale dell’esistenza umana, in quanto vi si manifestano la natura e l’intrinseca paradossalità dell’amore: l’amore esige infinità, indistruttibilità; esso è addirittura quasi un urlo lanciato dall’uomo per reclamare l’infinito. Ma contemporaneamente si rileva come questo suo grido sia irrealizzabile, come esso aneli all’infinito ma sia incapace di ottenerlo; si constata come esso aspiri all’eternità, ma si trovi imprigionato in un mondo di morte, incatenato nella sua solitudine e nei suoi impulsi distruttivi. Ora, da questo si può capire che cosa significhi la ‘risurrezione ‘. Essa è l’unica superiorità effettiva dell’amore sulla morte.
Essa è però anche la chiara dimostrazione dell’unica cosa capace di creare l’immortalità: il sussistere in un altro, che continua ancora ad esistere anche quando io mi sono dissolto. L’uomo è quell’essere che, pur desiderandolo, non vive eternamente, ma è necessariamente votato alla morte. Non avendo in sé un principio di sussistenza può sopravvivere continuando ad esistere con la Vita indistruttibile del Dio vivente, che è Amore. Ed ecco perché la Scrittura rapporta la genuina essenza del peccato cioè la caduta nella tentazione dell’autarchia, della pretesa autosufficienza di sussistere per conto proprio come un buttarsi volontariamente in braccio alla morte mentre l’affidarsi all’amore del Dio dei viventi la possibilità di continuare a vivere sciogliendo le catene del peccato e quindi della morte. E la risurrezione ha inaugurato una nuova dimensione della vita profondamente nuova, in cui l’amore non è più soggetto alla tirannia della vita biologica, che è al contempo signoria incontrastata della morte, ma a quella sfera che la Bibbia greca chiama ‘zoé”, ossia vita imperitura, completamente fuori dalla dittatura della morte.
L’amore genera sempre una specie di immortalità persino negli esseri pre-umani, almeno come mezzo per la conservazione della specie.
“Anche Dio infatti - osserva Ratzinger - è un’assoluta sussistenza e consistenza tetragona ad ogni tramonto perché è armonica coordinazione di tre persone, è un loro trasfondersi nel mutuo amore, è atto sostanziale del loro amore assoluto eppure integralmente ‘relativo’, in quanto vive soltanto nel flusso inesauribile dei loro rapporti vicendevoli. Veramente divina non è l’autarchia, che non conosce nessun altro all’infuori del soggetto stesso; è appunto per questo, che abbiamo individuato la rivoluzione dell’immagine cristiana del mondo e di Dio rispetto all’antichità nel fatto che il cristianesimo c’insegna a concepire l’‘Assoluto’ come assoluta ‘relatività’ come ‘relatio subsistens’”. L’amore genera l’immortalità, l’immortalità scaturisce unicamente dall’amore: “colui il quale ha amato per tutti, ha anche fondato l’immortalità per tutti”.

La risurrezione di Cristo è la nostra vita
Così diventa evidente la difficile argomentazione di Paolo: se egli è risorto, anche noi risorgeremo, perché l’amore è più forte della morte; se invece egli non è risorto, non risorgeremo neppure noi, perché allora è chiaro che la morte ha l’ultima parola e basta (1 Cor 15,16). O l’amore è più potente della morte, oppure non lo è. Se in Lui risorto esso è davvero divenuto forte così, lo è divenuto proprio in veste d’amore verso gli altri. Ciò vuol ovviamente dire che il nostro amore soggettivo, lasciato unicamente a se stesso, non riesce a vincere la morte, ma sarebbe invece costretto per sua stessa costituzione a restare un appello inesaudito. Soltanto il suo amore, il quale viene a identificarsi con la potenza vitale e amorosa di Dio stesso, è in grado di gettare le basi della nostra immortalità e la modalità della nostra immortalità dipende dal nostro modo di amare, come il giudizio di Dio ci ricorda.
La vita del risorto non sarà più il semplice ‘bios’, ossia la forma biologica della nostra vita attuale infra-storica e quindi votata alla morte, bensì la ‘zoé’, ossia una vita nuova, diversa, stabile e definitiva; una vita che ha ormai superato la sfera mortale della vicenda biologica, sfera che qui si trova scavalcata definitivamente da una potenza superiore. Infatti, gli stessi racconti neotestamentari della risurrezione ci fanno vedere chiaramente come la vita del Risorto non si svolga ormai più nell’ambito della vicenda biologica, ma fuori e sopra di essa. Questa nuova vita, però, si è attestata e doveva necessariamente attestarsi nella storia, perché esiste proprio in funzione di essa, di un mondo nuovo che lei trasforma nella civiltà dell’amore e lo attira a sé, tanto è vero che la predicazione cristiana in fondo altro non è se non la trasmissione in continuità dinamica o Tradizione di tale testimonianza, tutta intenta a ribadire che l’amore è riuscito a sfondare la staccionata della morte, cambiando così radicalmente la situazione in cui ognuno si trova con la sua ragione di fronte alle domande fondamentali dell’esistenza umana: dove vado?perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? In questo orizzonte si può trovare la giusta ‘ermeneutica’ da adottare nella difficile questione di come spiegare i testi biblici concernenti la risurrezione e come vadano intesi di fronte a problemi insorgenti perché oggi si continuano a mescolare in uno sviluppo sempre più inestricabile affermazioni storiche e filosofiche insufficientemente ponderate.

La risurrezione non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena ma il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova
In primo luogo è chiarissimo che Cristo, nella sua risurrezione, non ha ripreso la sua vita terrena antecedente, come ci viene detto ad esempio del ragazzo i Naim e di Lazzaro. Egli è risorto invece a quella vita stabile e definitiva, che non sottostà più alle leggi chimiche e biologiche, e quindi risulta ormai sottratta all’eventualità della morte, posta anzi per sempre al riparo nell’eternità accordata all’amore. Ecco perché gli incontri con Lui sono ‘apparizioni ‘; ecco perché colui assieme al quale ancora due giorni prima si era seduti a mensa, non viene più nemmeno riconosciuto dai suoi migliori amici, e anche una volta riconosciuto rimane estraneo ad essi, cosicché solo quando egli stesso concede la facoltà di vederlo viene davvero visto; in effetti, solo allorché egli ci apre gli occhi e il nostro cuore si lascia aprire, può risultare percettibile in mezzo al nostro mondo di morte il volto dell’eterno amore vincitore della morte, e in esso il mondo nuovo, completamente diverso dall’attuale: il mondo del futuro, l’Adam, l’uomo definitivo nel progetto di Dio. Per la stessa ragione, torna tanto difficile agli stessi vangeli il descrivere gli incontri col risorto; quando ne parlano, non fanno che balbettare, e sembrano persino contraddirsi mentre ce li presentano. In realtà invece, sono sorprendentemente unanimi nella dialettica delle loro affermazioni, nel ribadire la contemporaneità del suo toccare e non toccare, del suo riconoscere e non riconoscere, nell’insistere sulla perfetta identità fra il crocifisso e il risorto, ma anche sulla radicale trasformazione avvenuta in lui. Si riconosce il Signore quasi senza riconoscerlo; lo si tocca, si mangia con lui, eppure egli è l’intangibile; egli è lo stesso, eppure è tutto diverso da prima
A tutta prima l’episodio dei discepoli di Emmaus suscita l’impressione di avere dinnanzi una descrizione corposa e massiccia della risurrezione; dà la sensazione che non sia rimasta traccia di quell’alone misterioso e indescrivibile che troviamo nelle esposizioni paoline di fede. Tutto fa pensare che la tendenza alla narrazione colorita, alla concretezza leggendaria, sostenuta da una apologetica mirante al tangibile, abbia avuto completamente il sopravvento, riportando di peso il Signore risorto ad un semplice ritorno alla nostra vita terrena e non invece alla più grande”mutazione” mai accaduta, al “salto” decisivo” verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazaret, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo. Ma risulta subito in netta contraddizione con tale fatto già la di lui misteriosa comparsa, e non meno misteriosa sparizione. E ancor più contraddittoria è la circostanza che egli rimanga irriconoscibile ad occhi pur assuefatti alla sua presenza. Non si è in grado di coglierlo come al tempo della sua vita terrena, sicché viene scoperto solo nell’ambito della fede suscitata da Lui che parla; interpretando le Scritture egli infiamma il cuore dei due pellegrini, e spezzando il pane apre loro gli occhi. Qui abbiamo una chiara allusione ai due elementi basilari della liturgia cristiana primitiva, che si compone appunto di liturgia della parola (è Lui risorto che parla quando si leggono e spiegano le Scritture) e di frazione eucaristica del pane cui punta la Parola, centro e culmine di tutti i Sacramenti. In tal modo, l’evangelista non crea l’episodio dei due discepoli di Emmaus, ma testimonia che il loro incontro col risorto viene a collocarsi su un piano completamente nuovo; utilizzando le ‘cifre’ dei dati liturgici, egli tenta di descrivere e di far comprendere in una certa misura l’indescrivibile che anche lui esperimenta nella comunità ecclesiale. Ci dà così una teologia della risurrezione e al contempo una teologia della liturgia ininterrotta: la Persona del risorto s’incontra nella Parola e nel Sacramento; l’azione liturgica è la maniera sensibile in cui egli si rende a noi percettibile, riconoscibile come il Vivente che fa vivere la vita nuova e con il suo Spirito dona il suo amore in noi. La liturgia anche di oggi si fonda sulla testimonianza degli Apostoli, dei due discepoli di Emmaus, delle donne che hanno constatato con Giovanni e Pietro il sepolcro vuoto, di tutti quelli cui è apparso, testimoni e non creatori del mistero pasquale; la risurrezione, con tutti questi fatti storici, va intesa come un avvento del Signore fra noi, sempre fra noi fino al compimento della storia, che lo porta a farsi presente in ogni volto, a farsi compagno di viaggio, ad infiammare gli ottusi cuori e ad aprirci gli occhi serrati. Egli continua sempre a camminare con noi, trovandoci sempre scoraggiati e a rischio di autarchia e autosufficienza cioè di peccato e quindi di morte, per trasformarci e attirarci a sé e al suo amore.

I resoconti lasciatici sulla risurrezione testimoniano l’avvenimento base su cui poggia ogni liturgia cristiana, fonte e culmine della vita della Chiesa
All’origine dell’essere cristiano, di ogni testimonianza di credenti non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona risorta di Gesù Cristo, che dà alla vita un nuovo orizzonte di amore e con ciò la direzione decisiva, liberandoci dall’autarchia, dall’autosufficienza cioè dal peccato e quindi dalla morte. Certo che l’esperienza che si fa imbattendosi nel risorto è qualcosa di ben diverso dall’incontro con uomo tuttora vivente in questa nostra storia; non può essere però certo fatta risalire a discorsi conviviali e a ricordi, che avrebbero finito per condensarsi nel pensiero che egli fosse ancora vivo e che il suo esempio, la sua causa proseguisse vittoriosa. Con una interpretazione del genere, l’evento viene sospinto nella direzione opposta e appiattito nella sfera meramente umana del ricordo entusiasta da imitare. E quindi privato della sua peculiarità. I resoconti lasciatici sulla risurrezione sono qualcosa di ben diverso e più sostanzioso di semplici transignificazioni liturgiche create da visioni interiori: mettono invece in risalto il fatto esterno di un incontro cioè l’apparizione, l’avvenimento base su cui poggia ogni liturgia cristiana di Lui che parla qui e ora attraverso la mediazione biblica e si fa ‘materialmente’ presente nel sacramento. Se è vero che nella Scrittura e nella Parola di Dio è Il Signore Dio vivente che parla con noi occorre accostarla come preghiera, dialogo con Dio, avvicinarsi intimamente a Dio. Essi attestano un fatto che non è sbocciato come un sogno fantastico dal cuore dei discepoli, ma invece è capitato loro dal di fuori, imponendosi ad essi contro i loro dubbi e infondendo loro una certezza: il Signore è veramente risorto cioè presente, sempre contemporaneo inaugurando una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo cioè la civiltà dell’amore che vince la morte, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé. Colui che giaceva nella tomba nato da Maria, non si trova più là, ma vive nuovamente e realmente in persona e ogni uomo lo può incontrare perché Lui infonde ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito. E Lui, lo Spirito, l’Amore nella vita trinitaria, che realizza ogni incontro dell’uomo col Verbo incarnato, crocifisso, sepolto e risorto, in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Egli poi a sua volta, che ormai si era trasferito nell’altro mondo di Dio, aveva però saputo mostrarsi potente al punto, da manifestare fino alla tangibilità come fosse proprio lui stesso che ora sta loro davanti nella dimensione di vita profondamente nuova per assimilarli a Lui, documentando come in Lui la potenza dell’amore si fossa palesata più forte della potenza della morte.
Solo ammettendo questo ci si attiene alla testimonianza del Nuovo Testamento. La fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità. E’ la tradizione cattolica dell’et et, e e. Non è possibile avere la fede cristiana, e insieme la “religione ristretta nei limiti della mera ragione”; la scelta fra le due s’impone inderogabilmente. A chi e crede e ragiona risulterà man mano sempre più chiaramente discernibile come lo stadio più perfetto della ragione sia proprio la professione di fede in quell’amore che ha vinto la morte.

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