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Essere veri adoratori

Autore:
Oliosi, don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Non anteporre nulla al divino Officio e nella formazione promuovere insieme la fede e la ragione, il cuore e la mente

«Per questo in un monastero di impostazione benedettina, le lodi di Dio, che i monaci celebrano come solenne preghiera corale, hanno sempre la priorità. Certo - e grazie a Dio!-, non sono solo i monaci che pregano; anche altre persone pregano: bambini, giovani e anziani, uomini e donne, persone sposate e nubili - ogni cristiano prega, o almeno dovrebbe farlo!
Perché oggi una chiamata al sacerdozio o allo stato religioso possa essere sostenuta fedelmente lungo tutta la vita, occorre una formazione che integri fede e ragione, cuore e mente, vita e pensiero. Una vita al seguito di Cristo ha bisogno dell’integrazione dell’intera personalità. Dove si trascura la dimensione intellettuale, nasce troppo facilmente una forma di pia infatuazione che vive quasi esclusivamente di emozioni e di stati d’animo che non possono essere sostenuti per tutta la vita. E dove si trascura la dimensione spirituale, si crea un razionalismo rarefatto che sulla base della sua freddezza e del suo distacco non può mai sfociare in una donazione entusiasta di sé a Dio. Non si può fondare una vita al seguito di Cristo su tali unilateralità; con le mezze misure si resterebbe personalmente insoddisfatti e, di conseguenza, forse anche spiritualmente sterili. Ogni chiamata alla vita religiosa o al sacerdozio è un tesoro così prezioso che i responsabili devono fare tutto il possibile per trovare le vie di formazione adatte per promuovere insieme fides et ratio - la fede e la ragione, il cuore e la mente» [Benedetto XVI, Visita all’Abbazia di Heiligenkreuz, 9 settembre 2007].

Essere veri adoratori
I monaci esercitano, per tener viva in tutta la Chiesa l’essere adoratori, la professione dell’orante. La loro vita è adorazione. Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino viene chiamata con ragione il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al disopra di tutto, è degno “di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato.
Allo stesso tempo, l’officium dei consacrati è anche un servizio sacro agli uomini e una testimonianza per loro. Ogni uomo porta nel cuore, consapevolmente o inconsapevolmente, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi in fondo di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: il Dio Creatore non ha posto noi uomini in tenebre spaventose dove, andando a tentoni, dovremmo disperatamente cercare un fondamentale ultimo senso (At 17,27); Dio non ci ha abbandonati in un deserto del nulla, privo di senso, dove, in definitiva, ci aspetta soltanto la morte. No! Dio ha illuminato le nostre tenebre con la sua luce, per opera del suo Figlio Gesù Cristo. In Lui, Dio è entrato nel nostro mondo con tutta la sua “pienezza” (Col 1,19), in Lui ogni verità, di cui abbiamo nostalgia, ha la sua origine ed il suo culmine.
La nostra luce, la nostra verità, il nostro appagamento, la nostra vita - tutto ciò non è una dottrina religiosa, ma una Persona: Gesù Cristo. Molto al di là delle nostre capacità di cercare e desiderare Dio, siamo già prima stati cercati e desiderati, anzi, trovati e redenti da Lui! Lo sguardo degli uomini di ogni tempo e popolo, di tutte le filosofie,le religioni e le culture incontra infine gli occhi spalancati del Figlioli Dio crocifisso e risorto; il suo cuore aperto è la pienezza dell’amore. Gli occhi di Cristo sono lo sguardo del Dio che ama. Questo sguardo si volge ad ogni uomo. Il Signore infatti, guarda nel cuore di ciascuno di noi.
Il nocciolo del monachesimo è l’adorazione ma Benedetto all’imperativo centrale dell’“ora” ne ha aggiunto un secondo: il “labora”. Insieme alla preghiera c’è anche il lavoro, la coltivazione della terra in conformità alla volontà del Creatore. Così in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio. Nel ritmo dell’ora et labora la comunità dei consacrati dà testimonianza di quel Dio che in Gesù Cristo ci guarda, e uomo e mondo, guardati da Lui diventano buoni.
Non solo i monaci dicono l’officium, ma la Chiesa dalla tradizione monastica ha derivato per tutti i religiosi, ed anche per sacerdoti e diaconi la recita del Breviario. Vale anche qui che le religiose e i religiosi, i sacerdoti e i diaconi, - e naturalmente anche i Vescovi - nella quotidiana preghiera “ufficiale” si presentano davanti a Dio con inni e salmi, con ringraziamenti e domande senza scopi specifici. Ci vuole disciplina, anzi, a volte anche superamento di sé per recitare fedelmente il Breviario; ma mediante questo officium riceviamo allo stesso tempo molte ricchezze: quante volte nel fare ciò stanchezza e abbattimento si dileguano! E là dove Dio viene lodato ed adorato con fedeltà, la sua benedizione non manca.
Il nostri servizio primario di sacerdoti per questo mondo deve quindi essere la nostra preghiera e la celebrazione del divino Officio. La disposizione interiore di ogni sacerdote, di ogni persona consacrata deve essere quello di “non anteporre nulla al divino Officio”. La bellezza di una tale disposizione interiore si esprime nella bellezza della liturgia al punto che là dove insieme cantiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. In una liturgia totalmente centrata su Dio, nei riti e nei canti, si vede un’immagine dell’eternità In ogni impegno per la liturgia criterio determinante deve essere sempre lo sguardo verso Dio. Noi stiamo davanti a Dio - Egli ci parla e noi parliamo a Lui. Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa. O essa è opus Dei con Dio come specifico soggetto o non è. Si tratta di realizzare la liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini!
Ma l’anima della preghiera è lo Spirito Santo. Sempre, quando preghiamo, è in verità Lui che “viene in aiuto alla nostra debolezza, intercedendo con insistenza per noi, con gemiti inesprimbili” (rm 8,26). I monasteri rendono molto evidente per gli uomini questa priorità di Dio! E indicano al mondo di oggi che la cosa più importante, anzi, alla fine l’unica cosa decisiva: esiste una ragione per cui vale la pena di vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile.
I monasteri non sono soltanto luoghi di cultura e di tradizione o addirittura semplici aziende economiche. Struttura, organizzazione ed economia sono necessarie anche nella Chiesa, ma non sono la cosa essenziale. Un monastero è soprattutto un luogo di forza spirituale.

La teologia cristiana non è mai un discorso solamente umano su Dio, ma è sempre al contempo il Logos e la logica in cui Dio si rivela
Dio, infatti, non è mai semplicemente l’Oggetto della teologia, è sempre allo stesso tempo anche il suo Soggetto vivente. Per questo intellettualità scientifica e devozione vissuta sono due elementi dello studio che, in una complementarietà irrinunciabile, dipendono l’una dall’altra.
C’è un distacco, una drammatica frattura fra una razionalità oggettivante e la corrente della spiritualità ecclesiale. Nell’ansia di ottenere il riconoscimento di rigorosa scientificità nel senso moderno, la teologia può perdere il respiro della fede. Ma come una liturgia che dimentica lo sguardo a Dio è, come tale, al lumicino così anche una teologia che non respira più nello spazio della fede, cessa di essere teologia; finisce per ridursi ad una serie di discipline più o meno collegate tra di loro. Dove invece si pratica una “teologia in ginocchio” non manca la fecondità per la Chiesa.
Nei monasteri cistercensi arde un fuoco mariano, il fuoco di san Bernardo di Chiaravalle, patrono delle chiamate spirituali. Animato da una particolare devozione mariana constatò che dove c’è Maria, là c’è il soffio pentecostale dello Spirito Santo, là c’è l’avvio di un rinnovamento autentico. Alla scuola di san Bernardo occorre che ciascuno si faccia fiduciosamente “bambino” davanti a Maria, come lo ha fatto il Figlio stesso di Dio. San Bernardo dice, e noi diciamo con lui: “Guarda la stella, invoca Maria…Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Non s’allontani il suo nome dalla tua bocca, non si allontani dal tuo cuore… Seguendo lei non ti smarrisci, pregando lei non ti disperi, pensando a lei non sbagli. Se lei ti tiene, non cadi; se lei ti protegge, non temi; se lei ti guida, non ti stanchi, se lei di conce il suo favore, tu arrivi al tuo fine”.

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