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Sine dominico non possumus

Autore:
Oliosi, don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Senza l’incontro eucaristico con il Signore, culmine e fonte di tutti gli altri incontri, e senza il suo giorno non possiamo vivere

«“Sine dominico non possumus”. Nella parola dominicum/dominico sono inseparabilmente intrecciati due significati, la cui unità dobbiamo nuovamente imparare a percepire. C’è innanzitutto il dono del Signore – questo dono è Lui stesso: il Risorto, del cui contatto e vicinanza i cristiani hanno bisogno per essere se stessi (onde assimilarsi a Lui, altri Cristi, Cristiani). Questo, però, non è solo un contatto spirituale, interno, soggettivo: l’incontro con il Signore si iscrive nel tempo attraverso un giorno preciso. E in questo modo si iscrive nella nostra esistenza concreta, corporea e comunitaria, che è temporalità. Dà al nostro tempo, e quindi alla nostra vita nel suo insieme, un centro, un ordine interiore. Per quei cristiani (di Abitene nell’attuale Tunisia nel 304 che avevano tenuto di Domenica la funzione religiosa cristiana, pur sapendo che questo era punito con la morte) la Celebrazione eucaristica domenicale non era un precetto, ma una necessità interiore. Senza Colui che sostiene la nostra vita, la vita stessa è vuota. Lasciar via o tradire questo centro toglierebbe alla vita stessa il suo fondamento, la sua dignità interiore e la sua bellezza” [Benedetto XVI, Omelia nel Duomo di Vienna, 9 settembre 2007].

Era questa la mentalità condivisa nei cristiani di allora, ancora senza bisogno che un precetto lo richiamasse, ma vale anche per noi cristiani di oggi, richiamati alla sua attualità perenne da un precetto per cui è la più grave omissione disattendolo: non va a Messa nemmeno la Domenica, non è più cristiano? Sì, vale anche per noi, dal momento che all’inizio dell’essere cristiani e quindi all’origine della nostra crescita e testimonianza di credenti, non c’è una decisione etica o una grande idea (queste vengono di conseguenza), ma l’incontro continuo con la Persona di Gesù Cristo, crocifisso e risorto che si fa liturgicamente cioè sacramentalmente presente e che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva per tutte le scelte proprie di quella nuova vita, di quella “novità” cristiana chiamata a trasformare ogni essere umano e il mondo. Soprattutto noi moderni, immersi in una cultura secolaristica, nichilistica di silenzio su Dio e con Dio e senza amore, abbiamo bisogno di una relazione continua che ci sorregga verso la meta eterna della vita e dell’universo e dia orientamento e contenuto per plasmare in meglio anche temporalmente noi stessi e il mondo. E’ questione di vita o di morte il contatto liturgico- sacramentale con il Risorto, che ci sorregge fin oltre la morte. Abbiamo bisogno, per non essere e sentirci soli anticipando la solitudine infernale eterna, di questo continuo incontro sacramentale che ci riunisce in vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata che anticipa il paradiso, e che ci dona quindi uno spazio di libertà, di fiducia, di speranza e di gioia in tutte le tribolazioni, in vita e in morte, e che ci fa guardare oltre l’attivismo della vita quotidiana verso quell’amore creatore e redentore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo tutti in cammino, l’universo stesso in cieli nuovi e terra nuova.
Senza l’incontro liturgico – sacramentale con il Signore, culmine e fonte di tutti gli altri incontri, di ogni vissuto fraterno di comunione ecclesiale e il giorno, la Domenica, che a Lui appartiene, non si realizza una vita riuscita, una sponsalità matrimoniale e verginale riuscita, una famiglia riuscita, una comunità cristiana riuscita, un vissuto sociale economico e politico riuscito. La Domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un vuoto fine – settimana senza valore, in tempo libero. Certo il tempo libero dal lavoro feriale e dagli impegni professionali, specialmente nella fretta selvaggia e disumana del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Per esperienza! Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l’insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea né ragazzi e né adulti. Il tempo libero necessita di un centro – l’incontro con Colui che è la nostra origine, la fonte di tutte le esperienze di amore e di solidarietà, di perdono e la nostra meta.
Proprio perché nella Domenica si tratta in profondità dell’incontro, nella Parola e nel Sacramento, con il Cristo risorto presente in modo non irresistibile e che richiede astensione da tutte le altre attività e slancio del cuore per coglierlo e accoglierlo, il raggio di tale giorno abbraccia la realtà intera personale e comunitaria. I primi cristiani hanno celebrato il primo giorno della settimana, obbedendo al comando del Signore fate questo in memoria di me, perché, fin dalla prima Domenica della storia, era ed è il giorno originario del Risorto, della Pasqua settimanale, antecedente e scopo della stessa celebrazione annuale.
Ma molto presto la Chiesa ha preso coscienza, sempre sotto la preminente e decisiva azione guida dello Spirito dato dal Risorto, anche del fatto che il primo giorno della settimana è il giorno del mattino della creazione, il giorno in cui Dio disse: “Sia la luce!” (Gn 1,3). Per questo la Domenica è nella Chiesa anche la festa settimanale della creazione di cui la risurrezione è una ri-creazione – la festa quindi della gratitudine e della gioia per la creazione e la ricreazione di Dio. In un’epoca, in cui, a causa dei nostri interventi umani spesso selvaggi, la stessa creazione sembra esposta a molteplici pericoli (e la ricreazione del risorto opera nella creazione, la grazia presuppone la natura), dovremmo accogliere coscientemente proprio anche questa dimensione della Domenica. Per la Chiesa primitiva, il primo giorno ha poi assimilato progressivamente anche l’eredità del settimo giorno, dello sabbat o giorno ebraico di riposo. Partecipiamo anche noi cristiani al riposo di Dio, un riposo che abbraccia le famiglie, i vissuti fraterni di comunione ecclesiale e tendenzialmente aperto a tutti gli uomini. Così in questo giorno dell’incontro comunitario con il Risorto percepiamo qualcosa della libertà e dell’uguaglianza di tutte le creature di Dio.
“Nell’orazione di questa Domenica – ha concluso il Papa nella liturgia della XXIII Domenica Anno C – ricordiamo anzitutto che Dio, mediante il suo Figlio, ci ha redenti e adottati come figli amati. Poi lo preghiamo di guardare con benevolenza i credenti in Cristo e di donarci la vera libertà e la vita eterna. Preghiamo per lo sguardo di bontà di Dio. Noi stessi abbiamo bisogno di questo sguardo di bontà, al di là della Domenica, fin nella vita di ogni giorno. Nel pregare sappiamo che questo sguardo ci è stato donato, anzi, sappiamo che Dio ci ha adottato come figli, ci ha accolto veramente nella comunione con se stesso. Essere figlio significa – lo sapeva molto bene la Chiesa primitiva – essere una persona libera, non un servo, ma uno appartenente personalmente alla famiglia. E significa essere erede. Se noi apparteniamo a quel Dio che è il potere sopra ogni potere, allora siamo senza paura e liberi, e allora siamo eredi. L’eredità che Egli ci ha lasciato è Lui stesso, il suo Amore. Sì, Signore, fa questa consapevolezza ci penetri profondamente nell’anima e che impariamo così la gioia dei redenti. Amen”.

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