Dare lavoro e seguire il Papa
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Con la tranquillità di non voler fare un’affermazione dogmatica, ma riportando la semplice esperienza di un giovane che, pieno di desideri e di fatiche, si affaccia al mondo del lavoro, mi sembra di poter dire che Nostro Signore ci ha lasciato un “test” semplice per verificare la nostra fede, e per verificare in particolare la nostra sequela – in anima e corpo – del Signore Gesù: è il livello di stima e di sequela che offriamo a colui che guida la Chiesa come vicario di Cristo; di stima e di sequela, cioè di approvazione nel giudizio e di messa in opera, poi, di questo giudizio. Non un astratto “sarebbe bello…”, ma un “è bello, e dunque farò di tutto per metterlo in pratica”.
In questo senso, mi pare, vada colta la provocazione, come al solito caduta nel nulla dopo i due-tre giorni di rimpallo sui media, che Benedetto XVI ci ha lanciato nel messaggio per la 45° Settimana sociale dei cattolici italiani, in particolare sul tema del lavoro e dei giovani: “Che dire, poi, dei problemi relativi al lavoro in rapporto alla famiglia e ai giovani? Quando la precarietà del lavoro non permette ai giovani di costruire una loro famiglia, lo sviluppo autentico e completo della società risulta seriamente compromesso”.
Che dire dei lavoratori, non cristiani e cristiani, che intendono il lavoro solo come una condanna, o al massimo come una arida fatica che non costruisce nulla? Ma che dire, soprattutto, dei datori di lavoro, non cristiani e – sempre più spesso – cristiani, che intendono il lavoro, proprio e degli altri, solo come la costruzione di un potere personale, di una personale realizzazione materiale che nulla ha a che vedere con il bene comune e con la costruzione di una società più umana? È infatti più umana una società in cui chi ha il desiderio di costruire una famiglia per rispondere ad una chiamata deve scontrarsi con i marosi di un sistema che porta non solo a fare un po’ di fatica, ma che conduce a retribuzioni e condizioni di lavoro ingiuste, indegne, a volte, sotto la maschera di un mercato che non guarda in faccia a nessuno, e di male interpretate situazioni normative, che consentono di sfruttare situazioni di bisogno reale a proprio vantaggio? Che dire poi di chi, protetto dal malcostume del “così fan tutti”, usa degli strumenti, di per sé sani ed intelligenti, della flessibilità, per indurre nel mercato del lavoro una condizione voluta di precariato, che assicura impegno minimo per chi dà lavoro, nonché retribuzioni totalmente fuori da qualunque controllo sindacale, che generano una ingiusta concorrenza al ribasso tra i lavoratori?
Che dire quando queste pratiche immorali sono non solo attuate, ma spesso addirittura difese, se non teorizzate, da cattolici che vogliono seguire il Papa?
Il Papa: colui cioè che ci garantisce la possibilità di non errare nel giudizio sulle questioni che veramente contano (la fede e la morale), e comunque di avere un punto di confronto sapiente e che provoca la nostra intelligenza anche su tutte le altre questioni.
La morale e la fede: non a caso entrambe rientrano nel dogma dell’infallibilità pontificia, ad indicare che la norma del comportamento umano, per il cristiano, non può prescindere dal rapporto vivo con Gesù, che illumina la ragione e l’affetto rendendoli capaci di discernere il bene dal male e poi di impiegare tutte le proprie energie, e i mezzi che ci sono donati, per realizzare il bene su questa terra.
Oggi però questa evidente connessione di morale e fede, di comportamento pratico e di convinzione profonda nella propria esperienza religiosa, sembra essere messa in crisi dal cedimento di tanta parte del mondo cattolico di fronte alla tentazione di “spaccare”, per così dire, la morale in due: da una parte la morale che consegue alla propria fede, con i suoi principi di giustizia, di difesa della verità, di creatività, di sussidiarietà; dall’altra parte la morale effettiva, quella a cui le condizioni esterne, le circostanze, questo bislacco mondo in cui viviamo ci costringono. Sarebbe bello che tutti i lavoratori potessero vivere dignitosamente con il frutto del proprio lavoro, per il sostentamento proprio e materiale di sé e della propria famiglia...ma purtroppo le condizioni concrete del mercato del lavoro non lo consentono. Il “mercato”, infatti, il grande luogo della libera espressione della propria creatività e insieme la grande maschera del più tenace dio di ogni tempo – il denaro – fa sì che per poter stare esso stesso in vita, e quindi garantire quella potenziale libertà di espressione economica di cui si dice, ci debba essere chi lavora a 10, chi a 100, chi a 1000, chi a centomila, perché, si dice, se così non fosse, chi lavora a 10 non avrebbe neanche quei 10, probabilmente non avrebbe nemmeno la possibilità di averli, non avrebbe insomma la possibilità di lavorare.
È forse allora la soluzione ideale distruggere il mercato, come il materialismo storico ha sostenuto come naturale conseguenza di questo discorso? La storia risponde di no a questa domanda, ma questo non ci deve far abbandonare la questione. C’è infatti un altro materialismo, altrettanto pericoloso, che è quello di tipo opposto, quello che ipostatizza la logica che sottostà al mercato, la fa diventare una cosa reale, gli dà corpo, e anima, consegnandoli tanto potere da stare sopra gli altri corpi e le altre anime – la divinizza.
Viviamo in un mondo in cui l’Interesse è diventato dio; non solo perché sembra in grado di dare la felicità all’uomo, ma perché è stato separato dall’Ideale. Qualunque cosa separata dall’Ideale tende a diventare essa stessa dio. Come le emozioni, come i diritti, la libertà, il desiderio…il denaro. Tutte cose buone, ma che tali sono perché partecipano dell’unico Bene, come i frutti capaci del rigoglio perché rimangono attaccati all’albero…c’è stata un’epoca in cui ideale e interesse erano naturalmente collegati, e per nulla in conflitto tra di loro: è il Medioevo, l’epoca in cui sui libri contabili stavano segnate le entrate, le uscite, e i soldi da dedicare a “Messer Domine Dio”, cioè alla decima, alla Chiesa sostenitrice dei poveri. Nessuno scandalo, nessuna contaminazione per questa vicinanza fin quasi fisica, per questa compenetrazione dell’ideale e dell’interesse. Perché l’interesse, attaccato all’ideale, è “naturalmente” per un bene, al di là di ogni ipocrita e volontaristica generosità che spesso destina un granello di sabbia nell’immensa distesa dell’interesse a servire l’ideale, per una tranquillità della propria coscienza. Non una parte, piccola o grande, ma la totalità del proprio interesse naturalmente coincide, per il cristiano che vive nel mondo ma non secondo il mondo, con lo scopo di servire Dio per costruirne il Regno già su questa terra.
Benedetto XVI ha affrontato questo tema in modo molto preciso nella splendida omelia della festa dell’Assunta 2007; in essa il Papa mostra come nel momento in cui San Giovanni scrive l’Apocalisse il dragone in essa descritto certamente fa pensare alla dominazione degli imperatori anticristiani, da Nerone a Domiziano, espressione di un potere che sembrava invincibile, di fronte al quale – dice – la Chiesa sembrava come una donna inerme. Ma molto più vicino ai nostri giorni non possiamo non pensare ad un altro trionfo del drago che è sembrato ancora una volta invincibile, quello dei totalitarismi del Novecento. Ed oggi? “Anche oggi esiste il dragone in modi nuovi, diversi. Esiste nella forma delle ideologie materialiste che ci dicono: è assurdo pensare a Dio; è assurdo osservare i comandamenti di Dio; è cosa di un tempo passato. Vale soltanto vivere la vita per sé. Prendere in questo breve momento della vita tutto quanto ci è possibile prendere. Vale solo il consumo, l’egoismo, il divertimento. Questa è la vita. Così dobbiamo vivere. E di nuovo, sembra assurdo, impossibile opporsi a questa mentalità dominante, con tutta la sua forza mediatica, propagandistica”. Il consumo, l’egoismo, il prendere tutto per sé come se tutto non dovesse essere lasciato trascorso il breve tempo di questa esistenza… Tutto ciò che non è messo nelle mani di Gesù Cristo muore insieme a noi, compreso l’Interesse, che sembra governare i nostri cuori e le nostre menti…
Insomma, mi pare che, perché la voce del Papa non sia una voce accanto alle alte, ma penetri nel nostro cuore e scuota la nostra ragione, questo sia il livello a cui tendere, l’orizzonte dentro cui giudicare tutti gli aspetti problematici del nostro tempo. A questo livello della riflessione ci ha condotto infatti la provocazione di Pistoia di Benedetto XVI: ma perché questo giudizio, più che ragionevole, sulla realtà del nostro tempo, non cada nell’abisso del nulla delle buone intenzioni, occorre una mossa della libertà; occorre che cambi il cuore delle persone, perché possa iniziare a cambiare la realtà.
Come avvenne ormai più di un secolo fa, quando il grido della Rerum Novarum di Leone XIII risvegliò la mente e il cuore, e dunque la responsabilità, di molti cattolici, che iniziarono a lavorare per una società più umana. Così affermava il Pontefice:
“È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli operai... che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti. Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza.”
Tuonanti parole d’altri tempi? Sì, ma parole di Papa. (Riprese, oltretutto, con grandissima acutezza da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus).
Oggi tante ideologie sono passate sotto i ponti, ma il problema è lo stesso: che la giustizia sia al servizio della carità, che la legge dell’agire sia sempre più la carità, quella carità che accende, poi, o riaccende, la creatività, l’iniziativa, la voglia di spendere la vita per l’Ideale!