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Eutanasia

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Affrontare la dura prova della morte nella preghiera e col conforto dei Sacramenti

«E’ questo, in verità, il vero obiettivo della cura ”pastorale” delle persone anziane, specialmente quando sono ammalate, e ancor più se gravemente malate… Se è vero che la vita umana in ogni sua fase è degna del massimo rispetto, per alcuni versi lo è ancor più quando è segnata dall’anzianità e dalla malattia. L’anzianità costituisce l’ultima tappa del nostro pellegrinaggio terreno, che ha fasi distinte,ognuna con le proprie luci e proprie ombre… Per i cristiani è la fede in Cristo ad illuminare la malattia e la condizione della persona anziana, come ogni altro evento e fase dell’esistenza. Gesù, morendo sulla croce, ha dato alla sofferenza umana un valore e un significato trascendenti. Dinnanzi alla sofferenza e alla malattia i credenti sono invitati a non perdere la serenità, perché nulla, nemmeno la morte, può separarci dall’amore di Cristo. In Lui e con Lui è possibile affrontare e superare ogni prova fisica e spirituale e, proprio nel momento di maggiore debolezza, sperimentare i frutti della Redenzione. Il Signore risorto si manifesta, in quanti credono in Lui, come il vivente che trasforma l’esistenza dando senso salvifico alla malattia e alla morte» [Benedetto XVI, Udienza ai partecipanti alla 22° Conferenza del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, 17 novembre 2007].

Oggi ci si chiede – ha notato il Papa -: ha ancora senso l’esistenza di un essere umano che versa in condizioni assai precarie, perché anziano e malato? Perché, quando la sfida della malattia si fa drammatica, continuare a difendere la vita, non accettando piuttosto l’eutanasia come liberazione? E’ possibile vivere la malattia come un’esperienza umana da assumere con pazienza e coraggio? Urge, da parte di chi è chiamato ad accompagnare gli anziani ammalati, soprattutto quando sembrano non avere più possibilità di guarigione, misurarsi ormai con queste domande che rivelano l’odierna mentalità efficientista che tende ad emarginare ”sofferenti” quasi fossero un ”peso” e ”un problema” per la società.
Chi ha la consapevolezza dell’essere dono del Donatore divino cioè della verità, della dignità unica e irripetibile di ogni persona umana sa che va rispettata e sostenuta mentre affronta difficoltà legate al suo stato. Doverose le cure palliative, le quali, anche s e non possono guarire, sono in grado di lenire le pene derivanti dalla malattia.
E come occorre il connubio di prega e lavora, di fede e ragione, occorre capacità di amare, di comprensione, di conforto, di costante incoraggiamento e accompagnamento accanto alle indispensabili cure cliniche.
Se il vissuto fraterno di comunione è costitutivo del rapporto io- comunità, come di corpo e anima, di uomo e donna, tanto più lo è per gli anziani nel percorrere in modo consapevole e umano l’ultimo tratto dell’esistenza terrestre per prepararsi serenamente attraverso la morte alla speranza principale del premio eterno dell’abbraccio del Padre celeste, pieno di tenerezza e di misericordia, cui tutto subordinare in vita e in morte.
E qui occorre recuperare la consapevolezza di un ambito costitutivo del vissuto ecclesiale e sociale cioè la Tradizione come comunione nel tempo coinvolgendo maggiormente le famiglie nella sollecitudine pastorale verso gli anziani. ”E’ in genere opportuno – richiama il Papa –fare quanto è possibile perché siano le famiglie stesse ad accoglierli e a farsene carico con affetto riconoscente, così che gli anziani ammalati possano trascorrere l’ultimo periodo della vita nella loro casa e prepararsi alla morte in un clima di calore familiare. Anche quando si rendesse necessario il ricovero in strutture sanitarie, è importante che non venga meno il legame del paziente con i suoi cari e con il proprio ambiente”.
E qui, da parte di ogni comunità parrocchiale, di movimenti e nuove comunità ecclesiali, occorre recuperare per i momenti più difficili del malato, l’attenzione pastorale per incoraggiare a trovare la forza per affrontare la dura prova nella preghiera e nei sacramenti. Accanto ai consanguinei c’è la testimonianza dei fratelli di fede e scienza, scienziati e medici impegnati nella ricerca per prevenire e curare le malattie dell’invecchiamento, senza mai cedere alla tentazione di ricorrere a pratiche di abbreviamento della vita anziana e ammalata, pratiche che risulterebbero essere di fatto forme di eutanasia. Per scienziati, ricercatori, medici, infermieri, amministratori e politici disumanizza il loro operato ”la tentazione dell’eutanasia…uno dei sintomi più allarmanti della cultura della morte che avanza soprattutto nella società del benessere” (Evangelium vitae 64).
Pur un pulviscolo nell’universo la vita di ogni uomo è un dono di Dio unico e irripetibile nel proprio e altrui essere, una sacralità che tutti siamo chiamati a custodire. E tale è l’anima umana che tocca anche gli operatori sanitari, la cui specifica missione è di farsi ”ministri della vita” in tutte le fasi, particolarmente in quelle segnate dalla fragilità connessa con l’infermità: è un ambito della Nota pastorale dopo il Convegno di Verona. ”Occorre un generale impegno – conclude il Papa – perché la vita umana sia rispettata non solo negli ospedali cattolici, ma in ogni luogo di cura”.

Quella solitudine in cui l’amore non può più penetrare, è l’inferno
Gli abominevoli delitti contro la vita, aborto ed eutanasia, non solo hanno conseguenze nella fase terrena ma soprattutto nella destinazione eterna e questo richiamo responsabilizza. Ci sono pagine (pp. 479-481) di Joseph Ratzinger in Collaboratori di verità sulle quali è utile riflettere per un’etica della vita più responsabile. ”Se ci fosse una solitudine che nessuna parola d’altri potesse penetrare e trasformare; se si desse un abbandono così profondo da non poter mai più essere ridestato e riscattato da alcun tu, questo sarebbe l’isolamento più radicale e la solitudine più terribile e totale che possano esistere: ciò che la teologia denomina ”inferno”.
Quello che questo termine intende può essere esattamente definito proprio a partire da qui: esso indica una solitudine in cui una parola d’amore non riesce più a penetrare, che perciò significa una condizione di abbandono, di vera e propria perdutezza dell’esistenza.
A chi non verrebbe in mente a questo punto che tanti filosofi e poeti del nostro tempo ritengono, in fondo, che tutti gli incontri tra gli uomini sono qualcosa di effimero e di superficiale, e che, dunque, nessun uomo abbia accesso all’intimità e alla profondità dell’altro individuo? Nessuno può inoltrarsi nelle regioni più interne dell’altro; ogni incontro, per quanto bello possa sembrare, non è che un anestetico che mitiga appena l’inguaribile ferita della solitudine. In questo modo, nella radice più profonda dell’intero nostro esistere non abiterebbe se non l’inferno, la disperazione, la solitudine, tanto indefinibile quanto densa d’orrore.
Com’è noto, Sartre ha elaborato la sua antropologia filosofica a partire da questa idea. Ma anche in un poeta tanto più conciliante e all’apparenza così sereno e tranquillo come Hermann Hesse traspaiono in fondo gli stessi pensieri: ”Curioso camminare nella nebbia! Vivere è esser soli. Nessun uomo conosce l’altro. Ognuno è solo!”.
Di fatto, una cosa è certa: c’è una notte la cui solitudine nessuna voce può attraversare; c’è una porta per la quale noi possiamo passare soltanto uno alla volta: la soglia della morte. Tutte le paure del mondo sono in fondo la paura di quest’ultima solitudine. Di qui è possibile capire perché l’Antico Testamento possiede una sola parola per indicare l’inferno e insieme la morte, il termine Sheol: entrambe le cose sono, per esso, in ultimo identiche. La morte è, semplicemente, la totale solitudine. Ma quella solitudine in cui l’amore non può più penetrare, è l’inferno”. Signore, che nessuno chieda di essere ucciso come se venisse dal nulla e finisse nel nulla; che nessuno, richiesto di uccidere, azzardi ad attentare ciò che è indisponile come il dono sacro della propria vita: cadrebbero in quella solitudine in cui l’amore non può più penetrare, qualora non si convertano e non si lascino riconciliare prima di morire.

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