Globalizzazione e speranza
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«Ecco la sorprendente scoperta: la mia, la nostra speranza è preceduta dall’attesa che Dio coltiva nei nostri confronti! Sì, Dio ci ama e proprio per questo attende che noi torniamo a Lui, che apriamo il nostro cuore al suo amore, che mettiamo la nostra mano nella sua e ci ricordiamo di essere suoi figli. Questa attesa di Dio precede sempre la nostra speranza, esattamente come il suo amore ci raggiunge sempre per primo (1 Gv 4,10). In questo senso la speranza cristiana è “teologale”: Dio ne è la fonte, il sostegno e il termine. Che grande consolazione in questo mistero! Il mio Creatore ha posto nel mio spirito un riflesso del suo desiderio di vita per tutti. Ogni uomo è chiamato a sperare corrispondendo all’attesa che Dio ha su di lui. Del resto, l’esperienza ci dimostra che è proprio così. Che cosa manda avanti il mondo, se non la fiducia che Dio ha nell’uomo? E’ una fiducia che ha il suo riflesso nei cuori dei piccoli, degli umili, quando attraverso le difficoltà e le fatiche si impegnano ogni giorno a fare del loro meglio, a compiere quel poco di bene che però agli occhi di Dio è tanto: in famiglia, nel posto di lavoro, a scuola, nei diversi ambiti della società. Nel cuore dell’uomo è indelebilmente scritta la speranza, perché Dio nostro Padre è vita, e per la vita eterna e beata siamo fatti.
Ogni bambino che nasce è segno della fiducia di Dio nell’uomo ed è conferma, almeno implicita, della speranza che l’uomo nutre in un futuro aperto sull’eterno di Dio. A questa speranza dell’uomo Dio ha risposto nascendo nel tempo come piccolo essere umano: ha scritto sant’Agostino (Spe salvi, n. 29). Lasciamoci allora guidare da Colei che ha portato nel cuore e nel grembo il Verbo incarnato. O Maria, Vergine dell’attesa e Madre della speranza, ravviva in tutta la Chiesa lo spirito dell’Avvento, perché l’umanità intera si rimetta in cammino verso Betlemme, dove è venuto, e di nuovo verrà a visitarci il Sole che sorge dall’alto (Lc 1,78), Cristo nostro Dio» [Benedetto XVI, Omelia, 1 dicembre 2007].
Perché accada l’avvenimento che educa alla speranza, alla grande e alle piccole speranze che mantengono in movimento verso di essa, occorrono educatori che donano speranza traendola da Lui come si è rivelato e si rivela: è educatore chi è consapevole che la mia, la nostra speranza è preceduta dall’attesa che Dio coltiva nei nostri confronti, ponendo nello spirito di ogni essere umano concreto il desiderio di vita, di vita eterna. Egli, come si è rivelato nella via umana dell’incarnazione, prova passioni come un essere umano, si rallegra, cerca, attende, tenta e ritenta, muove incontro finché… Si capisce perché Dio non ha creato un mondo in cui la sua presenza fosse spettacolare; perché Cristo non abbia lasciato dietro di sé un ben altro splendore della sua presenza, attraverso i segni materiali dei sacramenti e il volto dei suoi. Certo in ogni essere umano concreto c’è originariamente la spinta a sperare corrispondendo all’attesa che Dio ha su di lui perché la speranza, come la fede e la carità sono virtù “teologali” per cui non l’uomo ma Dio ne è la fonte, il sostegno e il termine. Questa attesa, questa speranza di Dio fa accadere molte speranze - più piccole e più grandi - diverse nei diversi periodi di ogni vita umana. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze. Nella gioventù può essere la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa posizione nella professione, dell’uno o dell’altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa raggiungere. Chi educa non può far a meno di passare attraverso il rischio educativo di non essere ascoltato, di passaggi provvisoriamente fallimentari. E quello che avviene nel succedersi dei giorni e nei diversi periodi di vita è avvenuto nel succedersi del tempo moderno con le prospettive ideologiche di speranze secolarizzate cioè l’instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e ad una politica scientificamente fondata, sembravano (rivoluzione borghese, rivoluzione proletaria), sembrano (rivoluzione tecnoscientifica attuale) realizzabili. Così la speranza biblica del regno di Dio viene illusoriamente rimpiazzata dalla speranza del regno dell’uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero “regno di Dio”. Queste speranze ideologiche sono in grado di mobilitare, anche attraverso i potenti mass-media - per un certo tempo, però, - tutte le energie dell’uomo, di generazioni perché l’obiettivo sembra meritevole di ogni impegno. Oggi queste speranze, susseguitesi nella modernità, evadono la realtà puntando agli uomini di dopodomani, ma non una speranza che ognuno sente per sé, per me. E benché il “per tutti” faccia parte della grande speranza - non posso, infatti, diventare felice contro anche uno solo e senza, a livello di tensione, puntare a tutti gli altri - resta vero che una speranza che non riguardi me in persona non è certo una vera speranza. E tutte le speranze ideologiche rivoluzionarie compresa l’attuale riduzione dell’uomo a semplice prodotto della natura e come tale non realmente libero perché trattato come ogni altro animale, non vogliono passare attraverso il rischio della libertà cioè della possibilità di amare e di essere amati. Ma la situazione delle cose umane dipende in ogni persona, in ogni generazione dalla libera decisione di ciascuno. Se questa libertà, a causa delle condizioni e delle strutture, fosse tolta, il mondo in fin dei conti, non sarebbe buono, perché un mondo senza libertà non è per nulla un mondo buono, una speranza: libertà e speranza sono indisgiungibili. E nel creare liberamente esseri liberi la speranza è costitutiva. Così pur essendo necessario un continuo impegno per il miglioramento del mondo, il mondo migliore di domani resta sempre una piccola speranza e non il contenuto proprio e sufficiente della nostra speranza, di quell’attesa di Dio dentro di noi che precede la nostra speranza. Ma quando è “migliore” il mondo? Che cosa lo rende buono? Secondo quale criterio si può valutare il suo essere buono? E per quali vie si può educare per raggiungere questa “bontà”? Sono: la preghiera, l’agire e il soffrire,lo scegliere personale e sociale davanti a Cristo giudice di giustizia e di grazia, nella prospettiva che verrà a giudicare i vivi e i morti personalmente (giudizio particolare) e pubblicamente (universale).
“Luoghi” continui di educazione alla speranza sono la preghiera, l’agire e il soffrire, scegliere in tutta la vita, in tutta la storia davanti al Giudice
Se la nostra speranza è preceduta dall’attesa che Dio coltiva nei nostri cuori, se questa attesa di Dio precede sempre la nostra speranza affidabile, esattamente come il suo amore ci raggiunge per primo, è virtù “teologale” cioè Dio ne è la fonte, il sostegno e il termine, è evidente che senza preghiera, il rapporto intimo io -Tu, non c’è speranza e senza la consapevolezza evangelica di questa speranza o attesa di Dio per me, per noi, per tutta la famiglia umana e per l’universo, non c’è preghiera del cuore.
La grande speranza può essere solo Dio che creandoci liberi ha una attesa che ci precede sempre con una speranza affidabile, Dio che abbraccia l’universo, tutta la storia e che può proporci e donarci ciò che, da soli, con la sola ragione, con la sola scienza e tecnica, non possiamo mai raggiungere cioè un’esistenza eterna di anima e di corpo risorto, nella relazione di amore di uomo - donna, di io comunità, umanità, universo. Proprio l’essere gratificati continuamente di speranze - più piccole o più grandi - che giorno per giorno, ci mantengono in cammino verso una meta così grande da giustificare la fatica del cammino, ci aiuta a non idolatrare nessuno e niente, a non scoraggiarci quando il presente è faticoso e con il cuore puro ad agire e soffrire sempre davanti a Dio Giudice, alla grande speranza. Dio è il fondamento della speranza - non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano, che si è lasciato uccidere per me, per noi, per tutti, che risorto è colui che si può chiamare e a cui rivolgersi in un io - Tu di preghiera, che è diventato carne della nostra carne, ossa delle nostre ossa con un volto umano che ci ha amati e ci ama, ogni singolo e l’umanità nel suo insieme e che attraverso la Parola e i Sacramenti, attraverso il vissuto di comunione ecclesiale, crocefisso - risorto è sempre uno dei nostri, uno di noi, nostro compagno di esistenza. Sì, Dio mi ama, ci ama e proprio per questo attende che noi torniamo a Lui, che apriamo il nostro cuore al suo amore, che, nell’agire e nel soffrire, mettiamo la nostra mano nella sua e ci ricordiamo di essere suoi figli. Nella preghiera ci si affida unicamente al Dio che è ugualmente il Dio del mio e altrui essere dono, di tutto il mondo che mi circonda, il mio Dio, perché tutti e tutto apparteniamo a Lui. Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora perché non sono mai solo. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare perché la sua attesa, la sua speranza non viene mai meno. Se non c’è più nessuno che possa aiutarmi nell’agire e nel soffrire - dove si tratta di una necessità o di un’attesa che supera l’umana capacità di agire e di soffrire - Egli può aiutarmi. “Da tredici anni di prigionia - Benedetto XVI propone una testimonianza attuale - di cui nove in isolamento, l’indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un prezioso libretto: Preghiere di speranza. Durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il mondo un testimone di speranza - di quella grande speranza che anche nelle notti di solitudine non tramonta”.
Ma nel giusto modo di pregare, personalmente parlando a Dio e sempre aggrappati alle preghiere della Chiesa, della Liturgia così che Dio parla a noi, accade quel processo di purificazione interiore che ci fa sempre più capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini, assimilandoci a Gesù Cristo. Sì, perché l’Io di Gesù, la sua persona non sussiste mai in un isolamento indipendente, ma è totalmente dal ‘tu’ del Padre, passando le notti in preghiera, per il ‘voi’ degli uomini. E’ identità di Logos (verità) e amore e fa così dell’amore il Logos, la Speranza, la verità di ogni essere umano figlio nel Figlio. L’avvenimento orante dell’incontro con la persona di Gesù Cristo e quindi il credere fino al compimento della speranza significa fare dell’amore il contenuto della fede, della speranza, sicché risulterà che l’amore è fede, è speranza, è paradiso, mentre la distruzione totale in se stessi del desiderio di verità e di disponibilità all’amore è inferno. Tutto ciò corrisponde al quadro tracciato da Gesù nella grande parabola del giudizio finale (Mt 25,31-46): la professione di fede, di speranza in Cristo, richiesta dal Signore che ci invita ad agire e soffrire sempre davanti al Giudice, viene fatta consistere nel trovare Cristo nell’ultimo degli uomini, in coloro che hanno bisogno del mio aiuto. Pertanto il confessare, nella fede pregata e vissuta, Cristo mia unica speranza vuol dire riconoscere in ogni uomo che ha bisogno di me la presenza di Cristo, così come lo incontro Giudice qui e ora; vuol dire comprendere l’appello dell’amore, del lasciarsi totalmente aprire al prossimo e agire come esigenza di fede, di speranza, di carità. E nella preghiera si impara che cosa veramente chiedere a Dio, che cosa sia degno di Dio. Non è preghiera pregare contro l’altro, chiedere cose superficiali e comode senza agire, che si desidera al momento - la piccola speranza sbagliata che conduce lontano da Dio. La preghiera fa riconoscere le menzogne segrete, la sporcizia che copre la purezza con cui inganniamo noi stessi: il non riconoscimento della colpa, l’illusione di innocenza non mi giustifica e non mi salva, perché l’intorpidimento della coscienza, dell’apertura originaria di ogni io alla realtà in tutti i fattori o verità di Dio e quindi l’incapacità di riconoscere il male come tale in me, è sempre colpa mia. Senza rapportarmi nella preghiera con Dio rischio di rifugiarmi in tali menzogne, perché non c’è nessuno che possa perdonarmi, nessuno che sia la misura, la speranza vera. L’incontro invece con Dio risveglia la mia coscienza, perché essa non mi fornisca più una auto giustificazione, non sia più un riflesso di me stesso e dei contemporanei che mi condizionano con le false speranze, ma diventi capacità di ascolto del Bene stesso, del premio di vita eterna, di vita vera, di quella grande meta da giustificare ogni fatica del cammino.
Nell’Omelia della solennità dell’Epifania, commentando quanto diceva il profeta Isaia “nebbia fitta avvolge le nazioni”, Benedetto XVI ha rapportato l’urgenza di vivere l’attuale globalizzazione in rapporto alla grande speranza: “Non si può dire infatti che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale, tutt’altro. I conflitti per la supremazia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale. C’è bisogno di una speranza più grande, che permetta di preferire il bene comune di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti. “Questa grande speranza può essere solo Dio… non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano” (Spe salvi n. 31): il Dio che si è manifestato nel Bambino di Betlemme e nel Crocifisso-Risorto. Se c’è una grande speranza, si può perseverare nella sobrietà. Se manca la vera speranza, si cerca la felicità nell’ebbrezza, nel superfluo, negli eccessi, e si rovina se stessi e il mondo. La moderazione non è allora solo una regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità. E’ ormai evidente che soltanto adottando uno stile di vita sobrio, accompagnato dal serio impegno per un’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile. Per questo c’è bisogno di uomini che nutrano una grande speranza e possiedano perciò molto coraggio. Il coraggio dei Magi, che intrapresero un lungo viaggio seguendo una stella, e che seppero inginocchiarsi davanti a un Bambino e offrirgli i loro doni preziosi. Abbiamo tutti bisogno di questo coraggio, ancorato ad una sola speranza. Ce lo ottenga Maria, accompagnandoci nel nostro pellegrinaggio terreno con la sua materna protezione. Amen”.