Gli esercizi spirituali per combattere contro il male
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«Ma che significa “entrare in Quaresima”? Significa iniziare un tempo di particolare impegno nel combattimento spirituale che ci oppone al male presente nel mondo, in ognuno di noi e intorno a noi. Vuol dire guardare il male in faccia e disporsi a lottare contro i suoi effetti, soprattutto contro le sue cause, fino alla causa ultima, che è satana. Significa non scaricare il problema del male sugli altri, sulla società o su Dio, a riconoscere le proprie responsabilità e farsene carico consapevolmente. A questo proposito risuona quanto mai urgente, per noi cristiani, l’invito di Gesù a prendere ciascuno la propria “croce” e a seguirlo con umiltà e fiducia (Mt 16,24). La “croce”, per quanto possa essere pesante, non è sinonimo di sventura, di disgrazia da evitare il più possibile, ma opportunità per porsi alla sequela di Gesù e così acquistare forza nella lotta contro il peccato e il male. Entrare in Quaresima significa pertanto rinnovare la decisione personale e comunitaria di affrontare il male insieme con Cristo. La via della Croce è infatti l’unica che conduce alla vittoria dell’amore sull’odio, della condivisione sull’egoismo, della pace sulla violenza. Vista così, la Quaresima è davvero un’occasione di forte impegno ascetico e spirituale fondato sulla grazia di Cristo» [Benedetto XVI, Angelus, 10 febbraio 2008].
Benedetto XVI ha programmato per sé e per la Curia “Veri e propri esercizi”: non un momento di distensione e di tranquillità, ma un allenamento dello spirito per opporsi al male presente nel mondo, per guardarlo in faccia e disporsi a lottare contro i suoi effetti, soprattutto contro le sue cause, fino alla causa ultima, che è satana. Si tratta di non scaricare il problema del male sugli altri, sulla società o su Dio, ma farsene carico responsabilmente nel silenzio, nel raccoglimento, nella preghiera. Accanto al rischio di non aver presente la causa ultima del male, cioè satana verso il quale Cristo, nella preghiera che ci ha insegnato, ci ha detto di chiedere al Padre di non abbandonarci alla tentazione e di liberarci dal male - Maligno, c’è anche l’esagerazione di attribuire tutto il male a satana, deresponsabilizzandoci. Il percorso degli Esercizi Spirituali dal 9 al 16 febbraio sono predicati dal cardinale Albert Vanhoye, già segretario della Pontificia Commissione biblica sul tema “Accogliamo Cristo nostro sommo sacerdote” nella sintesi cristologia della lettera agli Ebrei che in maniera molto profonda rinnova l’idea di sacerdozio e di sacrificio. Quanto è importante durante gli esercizi, nella modalità del carisma ignaziano, rimanere in solitudine. La solitudine è necessaria per un approfondimento personale. Senza l’aiuto della solitudine degli esercizi la persona rimane superficiale, mentre trovarsi da soli alla presenza di Dio favorisce una riflessione profonda. Nella solitudine del soli con Dio solo, come l’umanità di Gesù nella solitudine del deserto con Dio Padre, ci si rende conto delle proprie aspirazioni, delle proprie debolezze e del come mettersi in sintonia con Dio. Siccome la presenza di Dio, di Dio nel volto umano di Gesù risorto, non è spettacolare tale da costringere per un rapporto libero, di amore con Lui, è difficile coglierlo nel rumore moderno, perché il frastuono impedisce alla persona di vivere in profondità e di porsi in uno stupito rapporto con Lui. Gesù con i quaranta giorni nel deserto ci ha dato l’esempio: come Figlio di Dio non aveva bisogno della solitudine, ma ne aveva bisogno la sua natura umana, in tutta uguale alla nostra tranne che nel peccato, per prepararsi al ministero pubblico.
Affrontare il male insieme con Cristo, nostro fratello
Il predicatore degli Esercizi, cardinale Vanhoye, profondo conoscitore della lettera agli Ebrei, in una intervista all’Osservatore Romano dell’11-12 febbraio, da cui traggo queste argomentazioni, afferma che l’affermazione che il Figlio di Dio è nostro fratello è tratta proprio dalla lettera. L’autore ispirato dice che Gesù non si vergogna di chiamarci fratelli, di riconoscersi allora e in continuità da risorto fino a noi, presente nei nostri vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata. Questa è la cosa che più stupisce del darsi definitivo del Dio vivente, Padre, Figlio, Spirito Santo, nell’incarnazione del Figlio. Il Figlio unigenito di Dio, che è tanto al disopra di noi, si è posto al nostro livello e si è fatto nostro fratello, risorto continua la sua presenza in vissuti fraterni di comunione ecclesiale. Egli ha condiviso e condivide tutta l’esistenza della famiglia umana dal concepimento verginale nel grembo di Maria fino alla morte in Croce. La memoria degli episodi storici della sua vita, resi attuali nell’incontro liturgico - sacramentale con Lui crocefisso risorto, ce lo rendono più fratello nella via umana a fondamento di tanti rapporti fraterni. Gesù, nonostante la tentazione di Satana di rendere spettacolare la sua missione, ha voluto vivere nella semplicità, conducendo una esistenza nascosta per trent’anni e rimanendo tra noi nella semplicità materiale dei segni sacramentali. La sua vita, nell’originaria fase terrena e nella continuità della sua presenza ecclesiale, è quella di una persona molto semplice e ha parlato e parla con semplicità al popolo. Ha accolto e accoglie i malati, gli indemoniati, gli infermi e anche i peccatori. Questa è la cosa più impressionante: il Figlio di Dio si è fatto e si fa fratello dei peccatori, senza, evidentemente, la minima complicità con il peccato. Ha, però, accettato la condizione provocata dai peccati umani. Non ha voluto per sé un’esistenza separata dai comuni mortali, ma al contrario, un’esistenza umile e piena di dedizione per tutti, con una preferenza verso i peccatori e i poveri. E oggi risorto la Sua Persona si fa incontro attraverso i volti dei suoi per trasformarci in Lui, per vivere in Lui e di Lui, non per la spettacolarità etica o per le grandi idee dei battezzati, che possono sempre venir meno, ma perché accade l’avvenimento del loro rimando a Lui per il dono del Suo Spirito. Non ha voluto allora e in continuità fino adesso per sé un’esistenza separata dai comuni mortali, ma al contrario un’esistenza umile e piena di dedizione per tutti.
Il sacrificio nelle conseguenze nella nostra vita: docilità verso il Padre e solidarietà umana
Il sacrificio di Cristo è molto diverso dai sacrifici antichi, nei quali si immolavano gli animali. Questi riti erano rispettabili ed erano manifestazioni di generosità verso Dio, in quanto gli animali avevano un prezzo e un valore. Ma il sacrificio di Cristo è stato la trasformazione dall’interno di un evento tragico, anzi scandaloso. Questa è la cosa straordinaria che viene resa presente in ogni tempo e in ogni luogo con la liturgia eucaristica, come Tradizione ininterrotta fin dal cenacolo. Gesù ha affrontato una situazione che andava nel senso opposto all’idea del sacrificio antico. Ha fatto di una condanna a morte l’occasione della più grande docilità verso il Padre e della più grande solidarietà con gli uomini. Queste sono le due dimensioni del sacrificio di Cristo, che corrispondono alle due dimensioni della croce, come si attualizza in ogni liturgia eucaristica. La croce ha una dimensione verticale, che attiene al rapporto con Dio, e una dimensione orizzontale, che riguarda il rapporto con i fratelli. La croce che rivela e attua del modo divino di amare la larghezza cioè non esclude nessuno, la lunghezza perché perseverante e nessuna difficoltà lo vince, l’altezza perché punta a rendere ogni uomo figlio nel Figlio, la profondità perché condivide fino in fondo le miserie di ogni uomo, è un simbolo molto significativo: Gesù ne ha fatto un sacrificio di alleanza grazie alla docilità filiale e alla solidarietà spinte fino all’estremo. Non si poteva andare oltre nella solidarietà nei confronti dell’umanità miserabile,cioè nel prendere su di sé la sorte dei criminali condannati a morte.
L’incontro con la Persona di Gesù Cristo, sacerdote al modo di Melchisedek
L’autore della lettera agli Ebrei ha approfondito l’idea del sacerdozio del Messia e ha notato che nella Bibbia Melchisedek è nominato sommo sacerdote senza che si parli né di suo padre, né di sua madre, né della sua genealogia e nemmeno della sua nascita e della sua morte. Si tratta quindi di un sacerdote che corrisponde all’immagine del Figlio di Dio, che è veramente divenuto sacerdote solo per mezzo del suo sacrificio, il quale sostituisce tutti i sacrifici antichi. Tra i sacrifici antichi il più solenne, quello descritto con maggiori dettagli nell’Antico Testamento, è il sacrificio della consacrazione sacerdotale, perché ha formato nell’umanità di Cristo le due relazioni essenziali per la mediazione sacerdotale: la relazione con Dio e la relazione con i fratelli. Cristo, dice l’autore della lettera agli Ebrei, è stato reso perfetto per mezzo delle sue sofferenze: perfetto nel senso della perfezione sacerdotale perché le sue sofferenze hanno manifestato una docilità filiale e una solidarietà fraterna sospinte all’estremo. Cristo è sommo sacerdote, sacerdote-capo, che in continuità ecclesiale agisce nella persona di chi è consacrato dal sacramento dell’ordine. Indica il perfetto adempimento in Cristo del concetto di sacerdozio: Cristo, cioè è perfetto, unico mediatore tra noi e Dio, ci introduce nella sua comunione con il Padre.
Nei Vangeli troviamo la parola sacerdote sia al singolare, sia al plurale. La stessa parola greca al singolare indica il sommo sacerdote, il capo del sinedrio, di tutta l’organizzazione religiosa e la lettera agli Ebrei lo indica in Cristo e quindi in chi lo attualizza; al plurale indica quelli che appartengono alla famiglia sacerdotale, per noi il sacerdozio comune dei battezzati.
Benedetto XVI, annunciando domenica 10 febbraio all’Angelus gli Esercizi Spirituali suoi e della Curia ha chiesto di ricordarlo, ringraziando in anticipo. Conoscere il Predicatore, il tema del percorso preghiamo perché sempre più grande possa essere il suo atteggiamento di disponibilità a Dio e ai fratelli e riceva lumi per decidere gli orientamenti da prendere per tutta la Chiesa e attraverso di essa per tutto il mondo.