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E se non fosse risorto?

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
La risurrezione è un fatto realmente accaduto: che cosa significa per ciascuno di noi, per il mondo e la storia nel suo insieme?

«Nella solenne veglia pasquale è tornato risuonare, dopo il giorno della Quaresima, il canto dell’Alleluia, parola ebraica universalmente nota, che significa “Lodare il Signore”. Nei giorni del tempo pasquale questo invito alla lode rimbalza di bocca in bocca, di cuore in cuore. Riecheggia a partire da un avvenimento assolutamente nuovo: la morte e risurrezione di Cristo. L’alleluia è sbocciato nei cuori dei primi discepoli di Gesù in quel mattino di Pasqua, a Gerusalemme… Sembra quasi di sentire le loro voci: quella di Maria di Magdala, che per prima vide il Signore risorto nel giardino presso il Calvario; le voci delle donne, che lo incontrarono mentre correvano, impaurite e felici, a dare ai discepoli l’annuncio della tomba vuota; le voci dei due discepoli, che si erano incamminati verso Emmaus col volto triste e a sera tornarono a Gerusalemme pieni di gioia per aver ascoltato la sua parola e averlo riconosciuto “nello spezzare il pane”; le voci degli undici apostoli, che in quella stessa sera lo videro apparire in mezzo a loro nel cenacolo, mostrare le ferite dei chiodi e della lancia e dire loro: “Pace a voi!”. Questa esperienza ha inscritto una volta per sempre l’alleluia nel cuore della Chiesa!» [Benedetto XVI, all’Angelus del 24 marzo 2008].

Quanto la Chiesa celebra settimanalmente e annualmente è un fatto pasquale realmente accaduto
Le testimonianze circa la risurrezione di Gesù sono talmente numerose, alcune arrivate a noi in forma diretta e personale da parte dei protagonisti, che nessun fatto dell’antichità è certificato con tanta attendibilità.
L’inizio della predicazione e della testimonianza cristiana, e che rimarrà al centro fino alla fine dei tempi, coincise con la narrazione-testimonianza di questo fatto da parte di Pietro. Pietro e gli altri apostoli erano uomini tutt’altro che predisposti a visioni e ad evasioni mistiche. Era gente sana, robusta, realistica ed allergica ad ogni allucinazione. Semplicemente si arresero all’evidenza di un fatto: “abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione dai morti”. Che Gesù di Nazaret, il Crocifisso del Golgota, è risorto e che è adesso vivo, come lo è stato in continuità eucaristica e sacramentale in duemila anni o Tradizione, è ciò che nel cristianesimo è proprio, esclusivo, caratterizzante. Mentre le dottrine e le ideologie nascono, fanno fortuna, incantano magari anche per secoli, poi decadono e muoiono; il cristianesimo è essenzialmente un fatto: Cristo è risorto ed è vivo. E proprio perché è un fatto, il cristianesimo resta indipendentemente dall’accoglienza e dal numero di adesioni che riceve. E proprio perché un fatto, non può essere assimilato ad alcuna religione.

In che cosa è consistita la risurrezione di Gesù? Che cosa è realmente accaduto in quel sepolcro?
Qualcosa di unico, di incomparabilmente singolare: il corpo umano di Gesù, il suo cadavere viene investito, permeato, vivificato dalla stessa vita di Dio. L’ingresso della natura umana di Cristo nella vita di Dio non è un evento a disposizione delle forze umane, ma è il frutto di un intervento della forza e dello splendore di Dio, che trasfigura la condizione mortale in condizione immortale. Perché è una “novità assoluta”? Perché quanto è accaduto nel sepolcro non è il ritorno da parte di Gesù alla vita umana di prima insidiata comunque dalla morte, ma l’ingresso della condizione umana di Cristo nella vita e nella gloria di Dio. La risurrezione di Gesù è un fatto storico, realmente accaduto e il crocifisso e sepolto non può essere trovato in un sepolcro perché è risorto, un fatto che introduce Gesù, la sua umanità fatta di carne e di spirito, in una dimensione di vita profondamente nuova, in un ordine decisamente diverso.
Ma la controversia sulla Risurrezione di Gesù dai morti è oggi divampata fin dentro alla Chiesa. E’ alimentata non solo dalla crisi generalizzata dei valori tramandati, ma specialmente dalla forma della tradizione che ce ne dà notizia. Il fatto che i testi biblici debbano essere tradotti non solo linguisticamente ma anche concettualmente dal mondo di allora a quello odierno, rende plausibile che anche a questo punto possa essere necessario un processo di traduzione che faccia cadere le molte obiezioni usuali. Questa impressione viene rafforzata ancora più, se si confrontano tra di loro i molti racconti sulla Risurrezione. Diventano allora evidenti le loro differenze e risulta chiaro che essi si sforzano, anche se in modo balbettante, di trasmettere in parole un avvenimento, per il quale il linguaggio comune non sembra offrire sufficienti possibilità di espressione. Il problema di che cosa sia il nocciolo e che cosa sia guscio diventa tanto più improcrastinabile, quanto più diventa difficile la divisione tra contraffazione e traduzione vera.
Più che affrontare le singole teorie attuali è utile, alla luce di una meditazione tenuta dal card. Joseph Ratzinger nella Quaresima del 1983 alla Curia romana, mettere in evidenza in maniera positiva il centro della testimonianza biblica.

Il centro della testimonianza biblica
Chi legge il Nuovo Testamento può rilevare senza eccessivo sforzo che esistono due tipi sensibilmente differenti di tradizione della Risurrezione: quello di tradizione confessionale e quello di tradizione narrativa. Come esempio del primo tipo troviamo i versetti 3-8 del capitolo 15 della prima Lettera ai Corinzi; incontriamo il secondo tipo nei racconti della Risurrezione dei quattro Vangeli. Entrambi i tipi hanno origini differenti, entrambi hanno dissimili intendimenti e compiti. Di conseguenza anche ciò che esigono è differente, e questo è di notevole importanza per l’interpretazione, per la questione del nocciolo del messaggio.
Possiamo percepire l’origine della tradizione confessionale nella tradizione narrativa. Questa racconta che i discepoli di Emmaus furono salutati dagli undici, al loro ritorno a casa, con l’annuncio: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Pietro” (Lc 24,34). Questo passo è forse il più antico testo della Risurrezione che possediamo. In ogni caso la formazione della tradizione comincia con simili proclamazioni semplici, che poco a poco sono diventate un elemento fondamentale, solidamente formulato nell’assemblea dei discepoli. Essi vi sviluppavano formule della professione di fede nella presenza del Signore, che esprimono pure il fondamento della speranza cristiana, della speranza affidabile ed hanno inoltre la funzione di essere il segno dei credenti tra loro,della loro libertà, uguaglianza in dignità, del loro amore, della loro fraternità.
La confessione cristiana è nata. In questo processo di tradizione è cresciuta molto presto, nell’ambito palestinese probabilmente già negli anni trenta, quella confessione che Paolo ci ha conservato nella prima lettera ai Corinzi (15,3-8) come una tradizione che ha ricevuto egli stesso dalla Chiesa e che fedelmente trasmette. In questi testi di confessione, che sono i più antichi, si tratta solo in modo molto secondario di tramandare i singoli ricordi di testimoni. La vera intenzione, come Paolo sottolinea con enfasi, è di mantenere il nucleo cristiano, senza il quale il messaggio e la fede non sarebbero nulla.
La tradizione narrativa cresce per un altro stimolo. Si vuole sapere come siano andate le cose. Il desiderio della vicinanza, dei particolari va aumentando. Ad esso si accompagna molto presto una esigenza di autodifesa cristiana: contro sospetti, contro attacchi di ogni genere, che possiamo intuire dal Vangelo, ed anche contro interpretazioni diverse, quali si sono insinuate a Corinto. Tutto questo fa da stimolo alla ricerca di notizie di contenuto più esauriente. E’ sulla base di tali esigenze che si è formata una tradizione più approfondita dei Vangeli. Ciascuna delle due tradizioni ha quindi la sua importanza insostituibile; ma nello stesso tempo diviene evidente che esiste una gerarchia: la tradizione confessionale è al di sopra della tradizione narrativa ed è la fides quae il metro su cui si misura ogni interpretazione.

Il Credo fondamentale delle origini che Paolo ha conservato
Occorre cercare di comprendere più esattamente quel Credo fondamentale che Paolo ha conservato. Paolo, o piuttosto il suo Credo, comincia con la morte di Gesù. E’ sorprendente che questo testo così scarno, che non contiene una parola di troppo, ponga due aggiunte alla notizia “egli è morto”. Una delle aggiunte è questa: “secondo le Scritture”, l’altra: “per i nostri peccati”. Che cosa significano? L’espressione “secondo le Scritture” inserisce l’evento nella relazione con la storia dell’alleanza vetero-testamentaria di Dio con il suo popolo: questa morte non è un caso incoerente, ma appartiene al tessuto di questa storia di Dio, riceve da essa la sua logica e il suo significato. E’ un evento in cui si adempiono parole delle Scritture, ossia un avvenimento, che porta in sé un logos, una logica, un senso: che viene dalla parola e penetra nella parola, la copre e l’adempie. Questa morte risulta dal fatto che la Parola di Dio è stata portata tra gli uomini. Come si debba interpretare questa immersione della morte nelle parole di Dio ce lo indica la seconda aggiunta: morì “per i peccati”. Il nostro Credo riprende con questa formula una parola profetica (Is 53,12; 53,7-11). Il suo rinvio alla Scrittura non si proietta nell’indefinito; riecheggia una melodia dell’Antico Testamento, che sin dalle prime assemblee di testimoni era ben conosciuta. In concreto la morte di Gesù viene così tolta dalla linea di quella morte gravata dalla maledizione che deriva dall’albero della conoscenza del bene e del male, dalla presunzione dell’uguaglianza con Dio che finisce con giudizio divino: tornerai alla terra perché da essa sei stato tolto. Questa morte è di altro genere. Non è compimento della giustizia, che rigetta l’uomo nella terra, ma compimento di un amore che non vuole lasciare l’altro senza parola, senza senso, senza eternità. Non è radicata nella sentenza dell’uscita dal paradiso, me nei canti del Servo di Dio, morte che scaturisce da questa parola, e dunque morte che diventa luce per le genti; morte in relazione con il servizio d’espiazione, che vuole riportare riconciliazione; morte dunque che mette fine alla morte. Esaminata più da vicino, la doppia interpretazione che il Credo aggiunge alla breve espressione “egli è morto”, apre la via dalla Croce alla Risurrezione; quello che è detto qui (“morto per i nostri peccati, secondo le Scritture”) è più di una interpretazione: fa parte integrante dell’avvenimento stesso.
Ora segue nel testo della Scrittura, senza commenti, la parola “fu sepolto”. Ma si può capirla, solo se si vede nel contesto di ciò che precede e di ciò che segue. Afferma prima di tutto che Gesù sperimentò realmente la morte nella sua totalità. Che fu deposto nella fossa della morte. Che discese nel mondo dei morti, negli inferi. La fede della Chiesa ha successivamente studiato in modo approfondito questo mistero della morte di Gesù e cercato di comprendere da qui l’estensione storica e mondiale della vittoria di Gesù. Ma la tomba ha un significato per la fede? Ha una relazione con la Risurrezione del Signore? Proprio su questo punto oggi si nota un contrasto di opinioni, la controversia cioè su quel tipo di realismo che il messaggio cristiano richiede realmente. Esistono sull’argomento considerazioni molto seducenti e rischiose. Bultmann ad esempio si domanda che cosa significhi il miracolo di un cadavere rianimato. A chi potrebbe servire? E’ decoroso questo conflitto della parola di Dio con le leggi naturali quando basterebbe il realismo della fede nel risorto senza la risurrezione? Ma altri si domandano invece: le trasformazioni dell’evento della Risurrezione nella conoscenza di una vocazione, di una missione che continua, di un significato duraturo della fede in Gesù non sono forse dopo tutto espedienti che tolgono alla fede nella Risurrezione il suo carattere di realtà? Nel rifiuto sprezzante di quello che viene chiamato miracolo di un cadavere rianimato non si celerebbe in realtà un disprezzo per il corpo che è altrettanto non cristiano quanto umanamente falso? Non si cela forse un segreto scetticismo che vorrebbe togliere a Dio la possibilità di agire nel mondo? Quale promessa può esserci allorquando al copro umano non viene promesso nulla?
Si deve ammettere che il Credo non parla di tomba vuota: Ad esso non interessa direttamente che la tomba fosse vuota, ma che Gesù vi giacesse, fosse veramente morto. Bisogna ammettere che una comprensione della Risurrezione, quale verrebbe sviluppata a partire dalla tomba vuota come concetto opposto alla sepoltura, non raggiunge il senso del messaggio neotestamentario. Infatti Gesù non è un morto “ritornato”, come per esempio il giovane di Naim e Lazzaro, richiamati alla vita terrena, che doveva poi concludersi con una morte definitiva. La Risurrezione di Gesù non è un superamento della morte clinica, che conosciamo anche oggi, ma che ad un certo momento termina con una morte senza ritorno: non è questa la redenzione, la salvezza. Che le cose non stiano così lo spiegano non solo gli Evangelisti, ma lo stesso Credo di Paolo (1 Cor 15,3-11); in quanto descrive l’apparizione del risorto successivamente con la parola greca òphthe, che traduciamo di solito con “apparve”; forse dovremmo dire più correttamente: “si fece vedere”. Questa formula rende manifesto che si tratta qui di qualcosa di diverso: che Gesù dopo la Risurrezione appartiene ad una sfera della realtà che normalmente si sottrae ai nostri sensi. Solo così si può spiegare la non riconoscibilità di Gesù, narrata concordemente da tutti i Vangeli. Non appartiene più al mondo percepibile con i sensi, ma al mondo di Dio. Può quindi vederlo solo colui al quale Egli stesso lo concede Ed in un tale modo di vedere sono coinvolti anche il cuore, lo spirito, la schiettezza interiore dell’uomo. Due uomini che contemplano contemporaneamente il mondo esterno vedono raramente la stessa cosa. Inoltre si vede sempre da dentro. A seconda delle circostanze un uomo può percepire la bellezza delle cose o soltanto la loro utilità. Un uomo può leggere nel volto dell’altro la preoccupazione, l’amore, la pena nascosta, la falsità dissimulata, o non percepirne nulla. Tutto questo appare manifesto anche ai sensi e viene tuttavia percepito solo in un processo sensibile-mentale, che è tanto più esigente, quanto più profondamente la manifestazione sensibile di una cosa arriva nel fondo del reale. Qualche cosa di analogo è vero per il Signore risorto: si manifesta ai sensi, e tuttavia può solo stimolare sensi che vedono di più che attraverso i sensi.
Tenendo conto dell’intero brano, dovremmo allora ammettere che Gesù non visse come un morto rianimato, ma in virtù della potenza divina, al di sopra della zona di ciò che è fisicamente e chimicamente misurabile. Ma è anche vero che in realtà egli stesso, questa persona, il Gesù giustiziato due giorni prima, era in vita. Il nostro testo (1 Cor 15,3-11) lo dice molto esplicitamente quando riporta due frasi separatamente l’una dopo l’altra. Prima viene detto che “fu risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture”, e subito dopo che “apparve a Pietro, poi ai dodici”. Risurrezione e apparizione sono fatti distinti, nettamente separati in questa confessione. Le apparizioni non sono la Risurrezione, ma solo il suo riflesso: gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Prima di tutto essa è un avvenimento che riguarda anzitutto Gesù stesso, tra il Padre e lui in virtù dello Spirito Santo; poi questo avvenimento occorso a Gesù stesso diventa accessibile agli uomini perché è lui a renderlo accessibile poiché riguarda anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo.
E con questo siamo tornati di nuovo alla parola della tomba della quale si svela ora la risposta. La tomba non è il punto centrale del messaggio della Risurrezione, lo è invece il Signore nella sua nuova vita. Ma essa non deve neanche essere tolta da questo messaggio: Gesù crocifisso e sepolto non può essere trovato in un sepolcro perché è risorto. Se la sepoltura viene menzionata solo in maniera lapidaria in questo testo estremamente denso, si vuole intendere con ciò molto chiaramente che questo non fu l’ultimo passo della vita terrena di Gesù. Già la seguente formulazione, la proclamazione della Risurrezione “il terzo giorno secondo le Scritture”, è una silenziosa allusione al Salmo 16,10. Questo testo è uno degli elementi principali della prova veterotestamentaria elaborata nel cristianesimo primitivo per dimostrare il carattere messianico di Gesù. Stando alla testimonianza delle prediche tramandataci dagli Atti degli Apostoli, il Salmo fu il punto principale della formula “secondo le Scritture”. Questo versetto secondo il testo dei LXX, che fu l’Antico Testamento della Chiesa nascente, dice così: “Non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione”. Secondo l’interpretazione giudaica, la corruzione cominciava dopo il terzo giorno; la parola della Scrittura si adempie in Gesù, perché egli risorge il terzo giorno, prima cioè che incominci la corruzione. Qui il testo è legato anche al versetto che riguarda la morte: tutto questo avviene nel contesto delle Scritture – la morte di Gesù porta alla tomba, ma non alla decomposizione. Egli è la morte della morte, morte che è nascosta nella parola di Dio e quindi nel rapporto con la vita, che toglie alla morte il potere allorché questo, nella distruzione del corpo, disfa l’uomo sulla terra.

La risurrezione di Gesù è il superamento della morte per ogni uomo, per la struttura del creato, della materia
Tale superamento del potere della morte, proprio dove questa dispiega la sua irrevocabilità, appartiene in maniera centrale alla testimonianza biblica, a prescindere dal fatto che sarebbe stato assolutamente impossibile annunciare la Risurrezione di Gesù dal momento che ognuno poteva sapere e accertarsi che giaceva nel sepolcro. La cosa risulterebbe impossibile per il nostro mondo per il quale il corpo è indifferente; impossibile soprattutto nel mondo giudaico, per il quale l’uomo si identificava con il proprio corpo e non con una cosa accanto ad esso. Chi professa una risurrezione corporea non afferma un miracolo assurdo, ma afferma la potenza di Dio, il quale rispetta la sua creazione, senza essere legato alla legge della sua morte. Indubbiamente la morte è la forma tipica del mondo attualmente esistente. Ma il superamento della morte, la sua eliminazione reale e non semplicemente concettuale, è ancora oggi come allora il desiderio e l’oggetto della ricerca dell’uomo. La Risurrezione di Gesù, che riguarda anzitutto Lui, ma anche noi, tutta la famiglia umana, la storia, il mondo dice che questo superamento è in effetti possibile, che la morte non appartiene più in linea di principio e irrevocabilmente alla struttura del creato, della materia. Certamente dice anche questo, e cioè che il superamento dei confini della morte non è possibile, in definitiva, attraverso metodi clinici sofisticati, attraverso la tecnica. Avviene attraverso la potenza creatrice della parola e dell’amore. Solo queste potenze sono abbastanza forti per modificare così fondamentalmente la struttura della materia, da rendere superabile la barriera della morte. Per questo si trova nella straordinaria promessa di questo avvenimento anche una straordinaria chiamata, una vocazione, tutta una interpretazione dell’esistenza dell’uomo e del mondo. Ma specialmente diventa così manifesto che la fede nella Risurrezione di Gesù è una professione della reale esistenza di Dio, ed una professione della sua creazione, del “Sì” incondizionato con il quale Dio si pone di fronte alla creazione, alla materia. La parola di Dio penetra veramente fino all’interno del corpo. La sua potenza non finisce ai limiti della materia. Abbraccia il tutto. In definitiva, nella fede nella Risurrezione si tratta di questo: della reale potenza di Dio e della portata della responsabilità umana. Che la potenza di Dio- concludeva il card. Ratzinger agli Esercizi alla Curia del 1983 – sia speranza e gioia, questo è il contenuto liberatore della rivelazione pasquale. Nella Pasqua Dio rivela se stesso, la sua forza – superiore alle forze della morte – la forza dell’amore trinitario. Così la rivelazione pasquale ci dà il diritto di cantare “Alleluia” in un mondo cui sovrasta la nube della morte.

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