Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui...
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«Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo (Collège des Bernardins edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux) è in qualche modo emblematico. E’ infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione… Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: “quaerere Deum”, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa (la vita che è “veramente” vita, la grande speranza). Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo ‘escatologico’. Ma ciò non è da intendersi in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale; dietro le cose provvisorie (le speranze più piccole e più grandi che mantengono in cammino) cercavano il definitivo (la grande speranza che può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere). “Quaerere Deum”: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca al buio assoluto. Dio stesso (non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme) aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla (là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge). Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (…). Il desiderio di Dio include l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una “dominici servitii schola”. Il monastero serve alla “eruditio”, alla formazione e all’erudizione dell’uomo- una formazione con l’obiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola. Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via alla ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa colpisce il cuore di ciascun singolo (At 2,37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per Dio. Ma così ci rende attenti anche gli uni gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede…
Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbì esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale (…). I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione praticata dal giudaismo, doveva sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). Il mondo greco romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita (l’essere che rimanda all’Essere tutto in atto non è solo il dato originario, naturale; il fatto storico avvenuto ma anche il faciendum, il farsi futuro che tra loro non si smentiscono: questa la metafisica dinamica dell’essere). Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione (…).
E’ questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo passato? Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalle migrazioni di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?(…)
“Quaerere Deum” – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio (il senso del vivere,le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e percepire così Gesù Cristo come luce che illumina la storia ed aiuta a trovare il da farsi verso il futuro), sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura» [Benedetto XVI, Le origini della Teologia Occidentale e le radici della Cultura Europea, 12 settembre 2008].
La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa
Dal libro autobiografico La mia vita si coglie la provvidenzialità del percorso teologico di Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, in rapporto alla nuova evangelizzazione di fronte alle forze impulsive da cui è animata l’era contemporanea: la convinzione che la direttrice di fondo della storia non sia né solo l’essere dato originariamente, naturalmente, né solo il fatto accaduto storicamente né solo il dover essere cioè il progresso e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro. Questo taglio ideologico della modernità ha provocato, spesso in modo inconsapevole, un altro taglio altrettanto ideologico dell’antimodernità che il Concilio Vaticano II ha purificato. Ratzinger, con tanti altri, sottolinea l’urgenza di un e… e… tra dato naturale, fatto storico e da farsi: “Sarà tassativo compito della teologia accogliere questo appello, acciuffare questa possibilità. Individuando così i punti morti e colmando le lacune dei periodi passati” (Introduzione al cristianesimo, p. 36). Lo sviluppo della conoscenza è sempre un avvenimento in continuità dinamica fra dato originale, fatto storico e da farsi perché Dio continua a lavorare, a creare nella e sulla storia degli uomini. E questo è avvenuto anche durante il Concilio Vaticano II soprattutto a proposito della Costituzione sulla Parola di Dio, uno dei testi più significativi che non è ancora entrato e non ha ancora plasmato la coscienza ecclesiale. Cosi lo documenta Ratzinger in La mia vita: “Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner ed io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo in due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione scolastica suareziana e dalla nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica in cui, alla fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io al contrario, proprio per la mia formazione ero segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico (…). Ora era chiaro che lo schema di Rahner sulla Costituzione sulla parola di Dio non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con una esigua differenza di voti. Si doveva quindi procedere al rifacimento del testo. Dopo complesse discussioni, solo nell’ultima fase dei lavori conciliari si poté arrivare all’approvazione della Costituzione sulla Parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno (…). Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare” (pp. 92-93). Ci si sta preparando perché al Sinodo di ottobre possa accadere l’avvenimento della conoscenza delle reali affermazioni del Dei Verbum, e dalla seconda, dopo quella di Ratisbona, Lectio magistralis di Benedetto XVI nella capitale dell’Illuminismo è venuto un grande contributo.
La Parola di Dio introduce noi stessi nell’avvenimento del colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui, con una conoscenza tutta avvenimento cioè che giunge alle origini. E qui Benedetto XVI ricorda la nascita della grande musica occidentale.
Cantare in corrispondenza alla grandezza e alla bellezza della Parola di Dio
I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il “Gloria”, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il “Sanctus”, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclerq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni”.
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: “Davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore” (138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere esposti al criterio supremo: di pregare e cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine”. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (Confessioni VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non lo rispecchia più e diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. E’ certamente drastico se Bernardo per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso (mi sembra di sentire mons. Giussani!). Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e dal cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Ignorare le Scritture è non conoscere Cristo ma senza partire dall’incontro con la Persona di Gesù Cristo non si apprende a capire la Bibbia come unità
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende più di un millennio in cui i singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad una unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo Antico Testamento. Vale tanto di più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Chi osserva questo processo – certamente non lineare, spesso drammatico e tuttavia progresso – a partire da Gesù Cristo può riconoscere che nell’insieme c’è una direzione, che l’Antico e il Nuovo Testamento sono intimamente collegati tra loro. Certo, l’ermeneutica cristologia, che in Gesù Cristo vede la chiave del tutto e, partendo da Lui, apprende a capire la Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questa scelta di fede ha dalla sua la ragione – una ragione storica – e permette di vedere l’intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio (immediato). Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Lettera gesta docet – quid credas allegoria …”(Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, 1). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologia e pneumatica.
La Scrittura è cresciuta nel e dal soggetto vivo del popolo di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento, la Chiesa, e vive in esso
La Scrittura ha bisogno dell’interpretazione per essere Parola di Dio, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene in continuità vissuta: in essa le parole della Bibbia sono sempre presenza di Dio che parla. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola che crea la storia in continuità dinamica. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per la Scrittura il rapporto con il soggetto “popolo di Dio” è vitale. Da una parte, questo libro – la Scrittura – è il criterio che viene da Dio e la forza che indica la strada al popolo, ma, dall’altra parte, la Scrittura vive solo in questo popolo, che nella Scrittura trascende se stesso e così – nella profondità definitiva in virtù della Parola fatta carne – diventa appunto popolo di Dio. Il popolo di Dio la Chiesa – è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza. Naturalmente si richiede che questo popolo riceva se stesso da Dio, ultimamente dal Cristo incarnato e da Lui si lasci guidare. Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non si identifica, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umana la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
“La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6)
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita”. E ancora: “Dove c’è lo Spirito…c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore del Risorto ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che con il dono del suo Spirito ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e dal fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
L’“ora” (Parola di Dio) col “labora” (il lavorare degli uomini come espressione della somiglianza con Dio e partecipazione all’operare di Dio nella creazione continua del mondo)
Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Gesù supera questa separazione classista effettuando l’emancipazione dei semplici e rivendicando anche per loro la facoltà di essere, nel vero senso della parola, “filosofi”, vale a dire, capaci di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo altrettanto bene quanto lo comprendono i dotti, anzi meglio dei dotti. Ma circa il lavoro assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro è parte costitutiva del monachesimo cristiano. Benedetto parla esplicitamente del lavoro (cap. 48). I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata nel giudaismo, dovevano sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). Il mondo greco – romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero ed unico Dio, è anche Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita e quindi non c’è solo l’essere dato, naturale, non c’è solo il fatto storico accaduto ma anche il farsi. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha la facoltà e può partecipare all’operare continuo di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola per tutti, una cultura del lavoro per tutti, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
La fede non appartiene ad una consuetudine culturale, diversa a seconda dei popoli, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti
L’atteggiamento di fondo dei monaci era il mettersi alla ricerca di Dio, da parte di ogni monaco, “filosofo” nel vero senso della parola cioè capace di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo: guardare oltre le cose penultime, le piccole e grandi speranze e mettersi alla ricerca di quelle ultime, vere, della grande speranza. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale ogni monaco sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderlo nel vissuto fraterno di comunione, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in sé già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge ad ogni uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medioevale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3,15) (Logos deve diventare apo-logia cioè presentazione, la Parola deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della l,oro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia di Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa e Roma tutte accoglieva nel Pantheon, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti. Il cristianesimo si qualifica pertanto come “religione vera”, a differenza delle religioni pagane ormai prive di verità agli occhi della stessa razionalità precristiana e realizza rispetto ad esse una grande opera di “demitizzazione”, un vero illuminismo cristiano.
La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire a tutti i popoli: Egli si è mostrato e adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto nel quale c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi.
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “ad extra” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca- si trova nel discorso di san Paolo all’Aereopago. L’Areopago non era una specie di Accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. E’ proprio questa l’accusa contro Paolo: “sembra essere un annunziatore di divinità straniere” At 17,18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annunzio” (At 17,23). Paolo non annuncia dèi ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto – Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come sottolinea Paolo nella Lettera ai Romani (1,21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto penato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra – non un dio qualsiasi, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme – noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. “Verbum caro factum est” (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di aree ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dei era nascosto e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. “Quarere Deum” – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio cioè il senso, l’origine e la destinazione di ogni vita, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.