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Vero scienziato è...

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
La fede è una forma di conoscenza indiretta, grazie alla quale la ragione si apre alla verità della Rivelazione

«L’enciclica Fides et ratio si caratterizza per la sua grande apertura nei confronti della ragione, soprattutto in un periodo  in cui ne viene teorizzata la debolezza. Giovanni Paolo II sottolinea invece l’importanza di coniugare fede e ragione nella loro reciproca relazione, pur nel rispetto della sfera di autonomia propria di ciascuna. Con questo magistero, la Chiesa si è fatta interprete di un’esigenza emergente nell’attuale contesto culturale. Ha voluto difendere la forza della ragione e la sua capacità di raggiungere la verità, presentando ancora una volta la fede come una peculiare forma di conoscenza, grazie alla quale ci si apre alla verità della Rivelazione (Fides et ratio, 13). Si legge nell’Enciclica che bisogna avere fiducia nella capacità della ragione umana e non prefiggersi mete troppo modeste: “E’ la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione” (n. 56). Lo scorrere del tempo, del resto, manifesta quali traguardi la ragione, mossa dalla passione per la verità, abbia saputo raggiungere. Chi potrebbe negare il contributo che i grandi sistemi filosofici hanno recato allo sviluppo dell’auto consapevolezza dell’uomo e al progresso delle varie culture? Queste, peraltro, diventano feconde quando si aprono alla verità, permettendo a quanti ne partecipano di raggiungere obiettivi che rendono sempre più umano il vivere sociale. La ricerca della verità dà i suoi frutti soprattutto quando è sostenuta dall’amore per la verità» [Benedetto XVI, X Anniversario dell’Enciclica “Fides et ratio” , 16 ottobre 2008].
 
Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere valorizzate soprattutto in due grandi ambiti:
-          innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base dell’impiego degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza presupposta, di fede cioè di conoscenza mediata tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico – suscita la nostra ammirazione ma pone una grande domanda la cui risposta a fondamento dell’etica non può venire dal conoscere empiricamente verificabile proprio della scienza. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettiva della natura. Diventa allora inevitabile filosoficamente e teologicamente chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’essere cioè della verità dell’una e dell’altra su cui fondare la responsabilità o eticità nell’uso della scienza e della tecnica. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore riconducendo ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi non empiricamente verificabili diventa possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene cioè dell’eticità dell’empiricamente verificabile proprio della scienza, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. Di fronte al rischio della tendenza non etica di dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità è questo oggi un compito che sta davanti a noi per evitare il pericolo che scienza e tecnica ci facciano cadere nella disumanità: come lo vediamo nella storia attuale! Ormai non possiamo più nasconderci che si è verificato uno slittamento da un pensiero prevalentemente speculativo a uno maggiormente sperimentale. La ricerca si è svolta soprattutto all’osservazione fenomenologica della natura nel tentativo di scoprirne  i segreti, non filosoficamente e teologicamente del suo essere cioè la sua verità a fondamento di ogni intervento cioè l’eticità. E’ legittimo, necessario il desiderio di conoscere la natura poiché la Parola di Dio incarnata è intrinseca alla creazione, che è venuta ad essere attraverso un pronunciamento divino. Ma poi questo si è trasformato, inquinato nella volontà di riprodurla a proprio arbitrio senza eticità. La convinzione che la direttrice di fondo della storia non sia la Parola di Dio intrinseca alla creazione cioè l’essere dato, dono del Donatore divino sui cui fondare la responsabilità l’eticità di ogni intervento ma la creazione dell’uomo, il dover essere e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro creato dall’uomo con la scienza e la tecnica: è un pregiudizio diffuso e coltivato con il rischio della caduta nella disumanità. Questo cambiamento non è stato e non è indolore: l’evolversi dei concetti ha intaccato il rapporto tra la  fides, il cui criterio veritativo è la continuità della presenza del Risorto nell’Eucaristia e nella Chiesa e la ratio ridotta all’empiricamente verificabile chiusa alle grandi questioni del vero e del bene e a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la luce che illumina la storia e  aiuta trovare la via verso il futuro. La conquista scientifica e tecnologica, con cui la fides è sempre più provocata a confrontarsi, ha modificato l’antico concetto di ratio: in qualche modo, ha emarginato la ragione che ricercava la verità ultima delle cose dal momento che perfino una pietra porta il segno della Parola di Dio per fare spazio ad una ragione paga dell’arbitrio strumentale di scoprire la verità contingente delle leggi della  natura. La ricerca scientifica ha certamente un suo valore particolare positivo. La scoperta e l’incremento delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e di quelle applicate sono frutto della ragione ed esprimono l’intelligenza con la quale l’uomo riesce a penetrare nelle profondità del creato. La fede, da parte sua, non teme il progresso della scienza e gli sviluppi a cui conducono le sue conquiste quando queste sono finalizzate al bene di ogni uomo e di tutto l’uomo, al suo benessere e al progresso di tutta l’umanità. Come ricordava l’ignoto autore della Lettera a Diogneto: “Non l’albero della scienza uccide, ma la disobbedienza. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera” (XII, 2.4). La scienza può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però, come per l’uso dell’energia nucleare come bomba, può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. D’altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito storico – anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell’uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti.
-          in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato.
 
Se la ragione si riduce all’empiricamente verificabile della scienza e diventa sorda e al grande messaggio che le viene dalla filosofia non degradata a positivismo ma capace di  ricerca della verità e alla conoscenza mediata della fede cristiana, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita
Esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. E ciò significa che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Il facile guadagno o, peggio ancora, l’arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte anche inconsapevolmente, un ruolo determinante. E’ questa una forma di ybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità. La scienza, d’altronde, non è in grado di elaborare principi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie. La filosofia nel suo vero compito e la teologia diventano, in questo contesto degli aiuti indispensabili con cui occorre confrontarsi per evitare che la scienza proceda sola in un sentiero tortuoso, colmo di imprevisti e non privo di rischi. Ciò non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre strumenti di sviluppo; consiste, piuttosto, nel mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede, riconoscendole piena cittadinanza in una laicità positiva, possiedono nei confronto della scienza, perché permanga nel solco del suo servizio ad ogni uomo.
 
Mantenere desta la sensibilità per la verità
Nel De vera religione, 39,72 Agostino dice: “Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione… Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente” . Come dire: da qualsiasi parte avvenga la ricerca della verità, questa permane con un dato che viene offerto e che può essere riconosciuto già presente nella natura. L’intelligibilità della creazione, infatti, non è frutto dello sforzo dello scienziato, ma condizione a lui offerta per consentirgli di scoprire la verità in essa presente. “Il ragionamento non crea queste verità – continua le sue riflessioni sant’Agostino – ma le scopre. E se perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e una volta scoperte ci rinnovano” . La ragione, insomma, deve compiere in pieno il suo percorso, forte della sua autonomia e della sua ricca tradizione di pensiero.
La ragione, peraltro, sente e scopre che, oltre a ciò che ha raggiunto e conquistato, esiste una verità che non potrà mai scoprire partendo da se stessa, ma solo ricevere come dono gratuito. La verità della Rivelazione non si sovrappone a quella raggiunta dalla ragione; purifica piuttosto la ragione e la innalza, permettendogli così di dilatare i propri spazi per inserirsi in un campo di ricerca insondabile come il mistero stesso cioè il divino nella via umana. La verità rivelata, nella “pienezza dei tempi” (Gal 4,4), ha assunto il volto di una persona, Gesù di Nazaret, che porta la risposta ultima e definitiva alla domanda di senso di ogni uomo. La via umana alla Verità e alla Vita in Cristo, in quanto tocca ogni persona in cerca di gioia, di felicità e di senso, supera di gran lunga ogni altra verità che la ragione può trovare. E’ intorno al mistero cioè al divino nella via umana di quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati e ci ama sino alla fine, ogni singolo e l’umanità nel suo insieme che la fides e la ratio trovano la possibilità reale di un percorso comune, come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità. E’ Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso.
Benedetto XVI ha concluso: “In questi giorni, si sta svolgendo il Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”. Come non vedere la provvidenziale coincidenza di questo momento con il vostro Congresso. La passione per la verità ci spinge a rientrare in noi stessi per cogliere nell’uomo interiore il senso profondo della nostra vita. Una vera filosofia dovrà condurre per mano ogni persona e farle scoprire quanto fondamentale sia per la sua stessa dignità conoscere la verità della Rivelazione. Davanti a questa esigenza di senso che non dà tregua fino quando non sfocia in Gesù Cristo, la Parola di Dio rivela il suo carattere di risposta definitiva. Una Parola di rivelazione che diventa vita e che chiede di essere accolta come sorgente inesauribile di verità”.
 
Dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento
Il 14 ottobre, alla Quattordicesima Congregazione generale della XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi è intervenuto Benedetto XVI per sottolineare, sempre nel rapporto fides et ratio, tutto il bene che viene dall’esegesi moderna, ma anche per riconoscerne i rischi. La Dei Verbum 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico. In primo luogo, conferma la necessità dell’uso del metodo storico – critico, di cui descrive brevemente gli elementi essenziali. Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato in Gv 1,14 Verbum caro factum est. Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana. La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica.
Tuttavia, questa storia ha un’altra dimensione, quella dell’azione divina nella via umana. Di conseguenza la Dei Verbum parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina. Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica tre elementi fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia:
1)         interpretare il testo tenendo presente l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener conto dell’unità di tutta la Scrittura.
2)         Si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa
3)         Bisogna osservare l’analogia della fede.
Solo dove i due livelli metodologici, quello storico – critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di esegesi teologica – di una esegesi adeguata a questo libro. Mentre circa il primo livello l’attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello. Spesso questo secondo livello,il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla Dei Verbum, appare quasi assente. E questo ha conseguenze piuttosto gravi.
-          La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato. Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l’esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura. Questa è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel passato, parla solo del passato.
-          C’è anche una seconda conseguenza ancora più grave: dove scompare l’ermeneutica della fede indicata dalla Dei Verbum, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella via della storia umana. Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all’elemento umano. Di conseguenza, si propongono interrogazioni che negano la storicità degli elementi divini. Oggi il cosiddetto mainstream dell’esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba. La risurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica. Questo avviene perché manca un’ermeneutica della fede: si afferma allora un’ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza reale del Divino nella storia.
La conseguenza dell’assenza del secondo del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e lectio divina. Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie. Dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.
Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia cioè tra ragione e fede. La teologia biblica e la teologia sistematica sono due dimensioni di un’unica realtà, che chiamiamo teologia. Di conseguenza è auspicabile – il Papa è intervenuto  non come magistero ma come teologo - che in una delle proposizioni si parli della necessità di tener presenti nell’esegesi i due livelli metodologici indicati dalla Dei Verbum 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica. Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.

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