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Vita e morte

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
E’ necessario anche oggi evangelizzare la realtà della morte e della vita eterna, realtà particolarmente soggette a credenze superstiziose e a sincretismi

«Ieri la festa di Tutti i Santi ci ha fatto contemplare “la città del cielo, la Gerusalemme celeste che è nostra madre” (Prefazio di tutti i Santi). Oggi, con l’animo ancora rivolto a queste realtà ultime, commemoriamo tutti i fedeli defunti, che “ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace” (Preghiera eucaristica I). E’ molto importante che noi cristiani viviamo il rapporto con i defunti nella verità della fede, e guardiamo alla morte e all’al di là nella luce della Rivelazione. Già l’apostolo Paolo, scrivendo alle prime comunità, esortava i fedeli a “non essere tristi come gli altri che non hanno speranza”. “Se infatti – scriveva – crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti” (1 Ts 4,13-14). E’ necessario anche oggi evangelizzare la realtà della morte e della vita eterna, realtà particolarmente soggette a credenze superstiziose e a sincretismi, perché la verità cristiana non rischi di mischiarsi con mitologie di vario genere» [Benedetto XVI, Angelus, 2 novembre 2008].

Dopo la fede nella Pasqua di Cristo professata, celebrata, vissuta, pregata in primavera, dopo quella dell’Assunta, segno di consolazione e di sicura speranza, ecco la nostra Pasqua dall’1 all’8 novembre: il mondo ci appare come un “giardino”, dove lo Spirito di Dio ha suscitato con mirabile fantasia una moltitudine di santi e sante, di ogni età e condizione sociale, di ogni lingua, popolo e cultura. Ognuno è diverso dall’altro, con la singolarità della propria personalità umana e del proprio carisma spirituale. Tutti però recano impresso il “sigillo” di Gesù (Ap 7,3), cioè l’impronta del suo amore, testimoniato attraverso la Croce. Sono tutti nella gioia, in una festa senza fine, ma come Gesù, questo traguardo l’hanno conquistato passando attraverso la fatica e la prova (Ap 7,14), affrontando ciascuno la propria parte.
Nel primo millennio la solennità di Tutti i santi era come una celebrazione collettiva di Maria e di tutti i martiri. Questo martirio, peraltro, possiamo intenderlo in senso lato, cioè come amore per Cristo senza riserve, a cui tutti i battezzati sono protesi e che si raggiunge seguendo la via delle “beatitudini” evangeliche. E’ la stessa via tracciata da Gesù e che i santi e le sante si sono sforzati di percorrere, pur consapevoli dei loro limiti umani. Nella loro esistenza terrena, infatti, sono stati poveri di spirito, addolorati per i peccati, miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia. E Dio ha partecipato loro la sua stessa felicità: l’hanno pregustata già in questo mondo e, nell’al di là, la godono in pienezza. Sono ora consolati, eredi della terra, saziati, perdonati, vedono Dio di cui sono figli. In una parola: “di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3.10). Professando, celebrando questa fede sentiamo ravvivarsi in noi l’attrazione verso la grande speranza, verso il cielo, una meta sicura e così grande da giustificare la fatica del cammino e che spinge ad affrettare il passo del nostro pellegrinaggio terreno. Si accende sempre più nei nostri cuori il desiderio di unirci alla famiglia dei santi, perché come esseri spirituali siamo capaci di Dio per l’anima intellettiva di liberi soggetti trascendenti. Ogni anima è creata direttamente da Dio – non è un semplice essere vivente “prodotto” dai genitori – ed è immortale (CCC n. 366). Occorre ravvivare l’attrazione verso il Cielo di Maria e dei Santi, che ci spinge ad affrettare il passo del nostro pellegrinaggio terreno. Come è efficace sentire accendersi nei nostri cuori il desiderio di unirci per sempre alla famiglia dei santi, di cui fin dal Battesimo come figli nel Figlio già ora abbiamo la grazia di far parte.

La fede cristiana è anche per gli uomini di oggi una speranza che trasforma o sorregge la loro vita?
E’ una delle tre domande poste nella Spe salvi al n. 10: gli uomini e le donne di questa nostra epoca desiderano ancora la vita eterna? O forse più radicalmente l’esistenza terrena è diventata l’unico orizzonte? Agli inizi del cristianesimo, come testimonia il Nuovo testamento, la fede e la speranza erano fortissimi, anche se l’intera riflessione interessa il vivere e il morire di ogni uomo e quindi interessa anche noi qui e ora. In realtà, come già osservava sant’Agostino, tutti vogliamo la “vita beata”, la felicità, l’ogni bene senza alcun male cioè il Paradiso. Non sappiamo bene che cosa sia e come sia, ma ci sentiamo attratti, vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita E’ questa una speranza universale, comune a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. L’espressione “vita eterna” vorrebbe dare un nome a questa attesa insopprimibile: non una successione senza fine, ma l’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo e il dopo non esistono più. Una pienezza di vita e di gioia: è questo che speriamo e attendiamo dal nostro essere con Cristo.
Occorre continuamente ravvivare la speranza nella vita eterna fondata realmente sulla morte e risurrezione di Cristo. “Sono risorto e ora sono sempre con te”, ci dice il Signore, e la mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani e sarò presente persino alla porta della morte. Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là io ti aspetto per trasformare per te le tenebre in luce. E’ un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa e non una semplice informazione che, oggi, sembra accantonata o superata da informazioni più recenti.
La speranza cristiana non è però mai soltanto individuale, è sempre anche speranza per gli altri. Le nostre esistenze sono profondamente legate le une e le altre ed il bene e il male che ciascuno compie, con responsabilità personale, tocca sempre anche gli altri, anche i propri cari già partiti per l’al di là. Alle anime dei defunti può essere dato ”ristoro e refrigerio” mediante l’Eucaristia, la preghiera e l’elemosina. Che l’amore possa giungere fin nell’al di là, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni e gli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte – questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l’al di là un segno di bontà, di gratitudine o anche di richiesta di perdono? Così la preghiera di un’anima pellegrina nel mondo può aiutare un’altra anima che si sta purificando dopo la morte mediante una purificazione certamente dolorosa “come attraverso il fuoco”. E’, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Ecco perché la Chiesa ci invita a pregare per i nostri cari defunti e a sostare presso le loro tombe nei cimiteri.

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