Cristo è vivo!
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«Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto (storico e non semplicemente culturale) che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4): così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerigma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 5 novembre 2008].
Il fatto della risurrezione avvenuto nella storia con la tomba vuota e le reali apparizioni, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori, è la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana non riducibile certo ad una cultura, pur reale, e questo dall’inizio e fino alla fine dei tempi. E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. Certo accoglierlo pienamente, celebrarlo, viverlo e pensarlo diviene cultura ma non è riducibile, come è ogni rischio gnostico sempre in agguato, ad una realtà solo storicamente culturale. San Paolo attribuisce molta importanza anche alla formulazione letterale della tradizione, a monte del suo argomentare; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo cioè evangelizzeranno. La tradizione del fatto della risurrezione avvenuto nella storia a cui si collega è la fonte alla quale in continuità attingere. L’originalità del suo argomentare cioè della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui si esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa, un unico corpo di Cristo. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto storico anche culturalmente reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà storica del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita, del mistero della nostra salvezza, che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento, un nuovo orizzonte, la direzione decisiva e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza.
Questi due fatti sono importanti: la tomba vuota e il fatto avvenuto nella storia di Gesù che è apparso realmente
E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica – non vuol scrivere quasi un manuale di teologia – ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque lontano da ogni rischio di riduzione gnostica, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale, come deve essere ogni catechesi: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per voi, ed è vivo, ecclesialmente incontrabile attraverso il dono del Suo Spirito, per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui. Emerge innanzitutto il fatto avvenuto nella storia della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda e che non può essere riducibile ad una cultura. Proprio in quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema della apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente, storicamente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi e non semplicemente come un fatto culturale. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone e non creatore della risurrezione. Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco addirittura per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dai morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).
A due mila anni di distanza l’affermazione, l’annuncio, l’evangelizzazione continua “Cristo è risorto”, è vivo qui con noi, ecclesialmente incontrabile, è attuale anche per noi?
Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di due mila anni? L’affermazione “Cristo è risorto”, è vivo qui con noi, ecclesialmente incontrabile per lasciarci assimilare a Lui, vivere in Lui e di Lui, è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per Paolo e per noi oggi un tema così determinante per una fede professata, celebrata, vissuta, pregata? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio… che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di David secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3 – 4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino a lasciarsi uccidere in croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18) perché non poteva soccombere definitivamente alla morte e in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. E’ realizzato quanto dice il Salmo 2,8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione, poiché nella fase terrena era per i figli della casa di Israele, comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il regno di Cristo, questo nuovo regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima:Gesù è Dio! Dio con noi per tutti e per tutto! Per san Paolo, pur essendolo fin dal concepimento, la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela completamente nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio Padre, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (Rm 4,25).
Noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo
Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con Lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di Lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce cioè il Pensiero di Cristo non è una teoria – è la realtà della vita cristiana di ogni giorno. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione gene e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla, celebrarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia. In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (1 Cor 15.20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.