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Paolo e Lutero

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
E’ l’incontro personale, la comunione ecclesiale con Cristo, lasciandoci assimilare a Lui, amare con il suo amore, che ci fa giusti

«Nel cammino che stiamo facendo sotto la guida di san Paolo, vogliamo soffermarci su un tema che sta al centro delle controversie del secolo della Riforma: la questione della giustificazione. Come diventa giusto l’uomo davanti a Dio? Quando Paolo incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (Gal 1,14). L’illuminazione di Damasco gli cambiò radicalmente l’esistenza: cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come “spazzatura” di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, (dell’essere con Cristo e in Cristo) (Fil 3,8). La Lettera ai Filippesi ci offre una toccante testimonianza del passaggio di Paolo da una giustizia fondata sulla Legge e acquisita con l’osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia basata sulla fede in Cristo: egli aveva compreso che quanto fino ad allora gli era parso un guadagno in realtà di fronte a Dio era una perdita e aveva deciso perciò di scommettere tutta la sua esistenza su Gesù Cristo (Fil 3,7). Il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa nel cui acquisto investire tutto il resto non erano più le opere della Legge, ma Gesù Cristo, il suo Signore» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 19 novembre 2008].

Il rapporto tra Paolo e il Risorto dopo l’incontro personale, la comunione ecclesiale con Lui, diventò talmente profondo, con un nuovo orizzonte e la direzione decisiva, da indurlo a sostenere che Cristo non era soltanto la sua vita ma il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere persino il morire diventava un guadagno (Fil 1,21). Non che disprezzasse la vita, ma aveva compreso che per lui il vivere non aveva ormai altro scopo e non nutriva perciò altro desiderio che di raggiungere Cristo, come in una gara atletica, per restare sempre con Lui. Il Risorto, con la “mutazione” mai accaduta e con il “salto”decisivo” verso una dimensione di vita profondamente nuova, era diventato l’inizio e il fine della sua esistenza, il motivo e la meta della sua corsa. Soltanto la preoccupazione per la maturazione nella fede di coloro che aveva evangelizzato e la sollecitudine per tutte le Chiese da lui fondate (2 Cor 11,28) lo inducevano a rallentare la corsa verso il suo unico Signore, per attendere i discepoli affinché con lui potessero correre verso la mèta, lasciandosi assimilare a Cristo e amare con il suo amore dato in dono dal Suo Spirito di Risorto. Se nella precedente osservanza della Legge puntando alla riuscita, alla coerenza con le sole proprie forze non aveva nulla da rimproverarsi dal punto di vista dell’integrità morale, una volta raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso, “nessuno giudichi…”, “io non giudico nessuno: neanche me stesso” (1 Cor 4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per lasciarsi assimilare a Lui dal quale era stato conquistato (Fil 3,12), per amare con l’amore dato in dono dal Suo Spirito per cui la moralità cristiana è una tensione e la riuscita, la coerenza un dono da invocare nella preghiera. Il divenire giusti, richiesto dalla Torah, adesso consiste nel seguire Cristo, lasciarsi assimilare a Lui, amare con il suo amore dato in dono dallo Spirito del risorto.

Due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge riuscendo coerenti, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo che mi fa giusto
Ed è proprio per questa personale esperienza dell’incontro, del rapporto, della comunione ecclesiale con Gesù Cristo che Paolo colloca al centro del suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso il divenire giusti: uno costruito sulla riuscita nelle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo che rende giusti. L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge (esegui la Torah!) e quella della tensione nella fede in Cristo (segui mi!) diventa uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: “Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per (la riuscita) nelle opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,23-24). E aggiunge “Noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge” (28). Lutero a questo punto tradusse: “giustificato per la sola fede”.

Ma che cosa è questa “Legge” dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle “opere della Legge” che non giustificano?
Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia fino ad oggi; l’opinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale, del Decalogo e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola “tutto mi è lecito”. E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal tentare e ritentare di fare il bene invocando nella preghiera il dono della riuscita, della coerenza. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (Mc 10,19; Lc 16,17).
Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosé. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico del Decalogo fino alle osservanze rituali e cultuali che determinavano sostanzialmente l’identità ebraica dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc.. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a. C.. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle promesse di Dio: abbiamo la testimonianza dei martiri Maccabei.
Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani che seguono Gesù anziché la Torah dell’“Israele Eterno”. Per questo li perseguitava.

Con Gesù Cristo risorto, il Dio d’Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli e il cristianesimo la “religione vera”
Al momento del suo incontro, della sua comunione ecclesiale con il Risorto Paolo capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro – così dice nella Lettera agli Efesini tra Israele e i pagani non era più necessario: è il Risorto cioè Cristo presente che ci protegge contro il politeismo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, il Risorto presente nei e con i suoi, ed è Lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol dire semplicemente essere con Cristo e in Cristo, lasciandoci assimilare a Lui, che ha realizzato pienamente le dieci parole, le beatitudini. E questo basta. Non sono più necessarie altre osservanze. Perciò l’espressione “sola fide” di Lutero è vera, se non si oppone la fede alla carità, all’amore. La fede è guardare Cristo ecclesialmente presente, affidarsi a Cristo, conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore in e attraverso vissuti di comunione ecclesiale autorevolmente guidata. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,14). Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione ecclesiale con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione ecclesiale con Cristo che è l’amore. La comunione ecclesiale con Cristo, la fede in Cristo crea la carità. E la carità è la realizzazione della comunione con Cristo. Così, essendo ecclesialmente uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo.
In questo modo si supera la difficoltà del legame speciale tra l’unico Dio creatore universale e il solo popolo giudaico, legame superato con il Risorto, presente, nel quale l’unico Dio si dona, possiede un volto umano come Salvatore che ci ha amati fino alla fine, ogni singolo e l’umanità nel suo insieme, senza discriminazioni di popoli, di nazioni. Per cui l’incontro attraverso Paolo tra il messaggio biblico e il pensiero filosofico greco non è stato senza una ragione, ma la concretizzazione storica del rapporto intrinseco tra rivelazione e razionalità o ricerca del senso dell’umano. E proprio questo è anche uno dei motivi fondamentali della forza di penetrazione del cristianesimo nel mondo ellenistico romano: la forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita fraterna caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico – romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane, in continuità con il cammino di Paolo, la strada maestra dell’evangelizzazione.

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