Il coraggio di un Papa così
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La lettera che il Pontefice Benedetto XVI ha inviato, giovedì 12 marzo 2009, ai Vescovi della Chiesa cattolica riguardo la remissione della scomunica dei quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Marcel Lefebvre nel 1988, è certamente un caso inconsueto, singolare e straordinario. Elaborata da lui personalmente e firmata da due lettere uguali, una in italiano e una in tedesco, siamo in presenza di uno scritto straordinario, un testo fra i più belli e articolati che il Magistero dei Papi abbia mai prodotto.
Benedetto XVI si chiede innanzitutto se il provvedimento del 21 gennaio 2009 era necessario, se costituiva una priorità, se non ci sono forse cose più importanti. “Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia direttiva. La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: “Tu... conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15). Nel nostro tempo in cui vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (Gv 13,1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo momento della storia è che sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre più”.
Proprio in base alla natura di ogni ministero di carità pastorale prioritario è mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare la ragione di ogni uomo a mettersi in ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino scorgere tutte le utili luci della fede cristiana sorte in continuità nella tradizione non solo fino al 1962 o, in rottura con la tradizione precedente, dopo il 1965 e a percepire nella continua presenza di Cristo nella Tradizione della sua Chiesa la Luce che illumina tutta la storia. “Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est”.
Ecumenismo cioè lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani e dialogo interreligioso cioè il tentare di avvicinarsi gli uni e gli altri, pur nella diversità delle immagini di Dio, verso la fonte della Luce fa parte delle priorità supreme. “Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in diverse forme, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie. Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare in questo caso incontro al fratello che “ha qualcosa contro di te” (Mt 5,23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile- nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di recuperabile per l’insieme?”.
Il Papa spiega come, “nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13-15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri”. Sono stato incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. E’ forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore?”.
In questo senso, “vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro”.
I seguaci di Lefebvre non possono essere esclusi
Il Papa afferma che i seguaci di mons. Lefebvre non potevano essere esclusi dal dialogo, ma era necessario “impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme… Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti, così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?”.
Circa l’atteggiamento di alcuni membri, il Papa ammette che “da molto tempo e poi di nuovo in questa occasione abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazioni su unilateralismi ecc.”
Ad ogni modo afferma anche “per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto di tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo”.
Comunque 491 sacerdoti della Fraternità “non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente”.
Rimessa la scomunica ai quattro Vescovi che hanno manifestato un riconoscimento dell’autorità del Pontefice c’è l’invito alla Fraternità San Pio X al ritorno all’unità
Bernard Fellah, Superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, in un comunicato del 24 gennaio ha espresso “gratitudine filiale al Santo Padre per questo atto che, al di là della Fraternità Sacerdotale San Pio X, rappresenterà un beneficio per tutta la Chiesa”.
Il Papa distingue però la remissione della scomunica dal riconoscimento giuridico della Fraternità San Pio X, precisando che questo dipenderà dal chiarimento di importanti questioni dottrinali relative al Concilio Vaticano II e al successivo magistero dei Papi: “Uno sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio”.
Il “nodo” dottrinale
Il Papa insiste nella Lettera che le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite e la Fraternità non ha alcun stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.“ Con ciò ritorno alla distinzione tra persona e istituzione. La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità san Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa”.
Nella sua Lettera il Papa annuncia quale sarà il procedimento da seguire in merito alla questione dottrinale, e il cui primo passo consisterà nel collegare la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, attualmente presieduta dal Cardinale Dario Castrillòn, alla Congregazione per la Dottrina della Fede. “Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa – con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale riguardano soprattutto l’attuazione del Concilio Vaticano II e del magistero post- conciliare dei Papi. Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere. Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuol essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive”.
Il Concilio porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa
Il Pontefice fa riferimento a una delle questioni chiave cioè al modo in cui il Concilio deve essere inteso: porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa poiché lo strumento più grande della comunicazione nella vita della Chiesa è la sua stessa continuità dinamica e si chiama Tradizione. Anche se brevemente, riprende in questo modo il contenuto del Motu proprio “Ecclesia Dei” di Giovanni Paolo II, che trattava ampiamente la questione. “Ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuol essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive”.
Questo aspetto era fondamentale nel Motu proprio di Giovanni Paolo II, in cui si avvertivano i seguaci di Lefebvre della loro posizione “contraddittoria” per il fatto di mantenere “una nozione di Tradizione che si oppone al magistero universale della Chiesa, di cui detentore è il Vescovo di Roma con il Corpo dei Vescovi obbedienti a Lui. “Non si può – spiegava il testo – rimanere fedeli alla Tradizione rompendo il legame ecclesiale con colui al quale Cristo stesso, nella persona di Pietro, ha affidato il ministero dell’unità nella sua Chiesa”.
Ad ogni modo, il Motu proprio rivolgeva anche un appello a quei fedeli che interpretavano il Concilio con l’ermeneutica della discontinuità, a “una sincera riflessione circa la propria fedeltà alla Tradizione della Chiesa autenticamente interpretata dal magistero ecclesiastico, ordinario e straordinario, specialmente nei Concili ecumenici da Nicea al Vaticano II…Da questa riflessione, tutti devono trarre un rinnovato ed efficace convincimento della necessità di migliorare ancora tale fedeltà, rifiutando interpretazioni erronee ed applicazioni arbitrarie ed abusive, in materia dottrinale, liturgica e disciplinare”.
In particolare, Giovanni Paolo chiedeva ai teologi e agli esperti “un rinnovato impegno di approfondimento, nel quale si metta in luce la continuità del Concilio con la Tradizione, specialmente nei punti di dottrina che, forse per la loro novità, non sono stati ancora ben compresi da alcuni settori della Chiesa”.
La decisione di Benedetto XVI di rimettere la questione alla Congregazione per la Dottrina della Fede presuppone quindi un nuovo chiarimento, per tutta la Chiesa, sul Concilio Vaticano II e la sua continuità con la Tradizione della Chiesa, che coinvolgerà teologi e vescovi di tutto il mondo. Questa è ormai un’urgenza per tutti i cattolici!
Il “caso Williamson”
Il Papa confessa che il caso del Vescovo “seguace di Lefebvre” Richard Williamson, che in un’intervista rilasciata alla televisione svedese ha negato l’Olocausto, è stata “una disavventura per me imprevedibile che si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra i cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestare più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con una ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come la tempo di Papa Giovanni Paolo II –anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere”.