La speranza della vita eterna è un mito?
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
«Il brano tratto dal Libro del profeta Osea ci fa pensare immediatamente alla risurrezione di Gesù, al mistero della sua morte e del suo risveglio alla vita immortale. Questo passo di Osea – la prima metà del capitolo VI – era profondamente impresso nel cuore e nella mente di Gesù. Egli infatti – nei Vangeli – riprende più di una volta il versetto 6: “voglio l’amore e non il sacrificio,/ la conoscenza di Dio più degli olocausti”. Invece il versetto 2 Gesù non lo cita, ma lo fa suo e lo realizza nel mistero pasquale: “Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo giorno ci farà rialzare, e noi vivremo alla sua presenza”. Alla luce di questa parola, il Signore Gesù è andato incontro alla passione, ha imboccato con decisione la via della croce; Egli parlava apertamente ai suoi discepoli di ciò che doveva accadergli a Gerusalemme, e l’oracolo del profeta Osea risuonava nelle sue stesse parole: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni, risorgerà” (Mc 9,31).
L’evangelista annota che i discepoli “non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo” (v.32). Anche noi, di fronte alla morte, non possiamo non provare i sentimenti e i pensieri dettati dalla nostra condizione umana. E sempre ci sorprende e ci supera un Dio che si fa così vicino a noi da non fermarsi nemmeno davanti all’abisso della morte, che anzi lo attraversa, rimanendo per due giorni nel sepolcro. Ma proprio qui si attua il mistero del “terzo giorno”. Cristo assume fino in fondo la nostra carne mortale affinché essa sia investita dalla gloriosa potenza di Dio, dal vento dello Spirito vivificante, che la trasforma e la rigenera. E’ il battesimo della passione (Lc 12,50), che Gesù ha ricevuto per noi e di cui scrive san Paolo nella Lettera ai Romani. L’espressione che l’Apostolo utilizza – “battezzati nella sua morte” (Rm 6,3) – non cessa mai di stupirci, tale è la conclusione con cui riassume il vertiginoso mistero. La morte di Cristo è fonte di vita, perché in essa Dio ha riversato tutto il suo amore, come in una immensa cascata, che fa pensare all’immagine contenuta nel Salmo 41: “Un abisso chiama l’abisso/ al fragore delle tue cascate; tutti i tuoi flutti e le tue onde/sopra di me sono passati” (v. 8). L’abisso della morte viene riempito da un altro abisso, ancora più grande, che è quello dell’amore di Dio, così che la morte non ha più alcun potere su Gesù Cristo (Rm 8,9), né su coloro che, per la fede e il Battesimo, sono associati a Lui: “Se siamo morti con Cristo – dice san Paolo – crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 8,8). Questo “vivere con Gesù” è il compimento della speranza profetizzata da Osea: “…e noi vivremo alla sua presenza” (6,2).
In realtà, è solo in Cristo che tale speranza trova il suo fondamento reale. Prima rischiava di ridursi ad una illusione, ad un simbolo ricavato dal ritmo delle stagioni: “come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera” (Os 6,3). Al tempo del profeta Osea, la fede degli israeliti minacciava di contaminarsi con le religioni naturalistiche della terra di Canan, ma questa fede non è in grado di salvare nessuno dalla morte. Invece l’intervento di Dio nel dramma della storia umana non obbedisce a nessun ciclo naturale, obbedisce solamente alla sua grazia e alla sua fedeltà. La vita nuova ed eterna è frutto dell’albero della Croce, un albero che fiorisce e fruttifica per la luce e la forza che provengono dal sole di Dio. Senza la Croce di Cristo, tutta l’energia della natura rimane impotente di fronte alla forza negativa del peccato. Era necessario una forza benefica più grande di quella che manda avanti i cieli della natura, un Bene più grande di quello della stessa creazione: un Amore che procede dal “cuore” di Dio e che, mentre rivela il senso ultimo del creato, lo rinnova e lo orienta alla sua meta originaria e ultima.
Tutto questo avvenne in quei “tre giorni”, quando il “chicco di grano” cadde nella terra, vi rimase per il tempo necessario a colmare la misura della giustizia e della misericordia di Dio, e finalmente produsse “molto frutto”, non rimanendo solo, ma come primizia di una moltitudine di fratelli (Gv 12,24; Rm 8,29). Ora sì, grazie a Cristo, grazie all’opera compiuta in Lui dalla Santissima Trinità, le immagini tratte dalla natura non sono più soltanto simboli, miti illusori, ma ci parlano di una realtà. A fondamento della speranza c’è la volontà del Padre e del Figlio, che abbiamo ascoltato nel Vangelo di questa Liturgia: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io” (Gv 17,24)» [Benedetto XVI, Cappella Papale in suffragio dei cardinali e vescovi defunti nel corso dell’anno, 3 novembre 2011].
E tra costoro, che il Padre ha dato a Gesù, ci siamo noi e i nostri cari defunti per i quali offriamo la celebrazione eucaristica: essi “hanno conosciuto” Dio mediante Gesù, hanno conosciuto il suo nome, e l’amore del Padre e del Figlio, lo Spirito Santo, ha dimorato in loro come è in noi se in grazia di Dio (Gv 12,25-26), aprendo la vita al Cielo cioè alla zona di Dio, all’eternità.
La risurrezione è stata ed è come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato, della schiavitù di Satana e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé.