Il dramma della paternità
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Non è certo un film da botteghino, eppure “Le chiavi di casa” di Gianni Amelio sta riscuotendo un certo successo dal pubblico e notevoli apprezzamenti dalla critica. Basta scorrere la rassegna stampa tratta dai quotidiani e dalle riviste più importanti per rendersene conto, ma oltre le singole valutazioni tutti concordano nel dire che questo sia un film “problematico”, nel senso che cerca di porre all’attenzione di tutti un “problema”.
Un giovane uomo, Gianni, interpretato da un intenso Kim Rossi Stuart, si trova improvvisamente alle prese con Paolo (il bravissimo Andrea Rossi, che con disinvolta semplicità offre il suo reale handicap), il figlio quindicenne, rifiutato al momento della nascita perché affetto da gravi problemi fisici. Gianni accompagna il ragazzo a Berlino perché deve sottoporsi a terapie fisiche, cominciando così a rendersi conto della sua scomoda paternità.
Il rapporto tra i due è impacciato, in particolare modo Gianni non sa come trattare il ragazzo, mentre Paolo sfodera una chiassosa sicurezza, sintomo evidente di una profonda lacerazione.
Nella dolorosa routine ospedaliera, a stretto contatto con la sofferenza fisica e psicologica, Gianni incontra una madre (una brava e misurata Charlotte Rampling), una sorta di mater dolorosa, che accudisce da anni la figlia gravemente spastica.
La vicinanza, i colloqui, le domande serrate e talvolta indiscrete della donna hanno un effetto positivo su Gianni che decide, pur rendendosi conto delle difficoltà, di riprendere con sé, nella nuova famiglia che si è costruito, il figlio abbandonato.
Sono molti, a nostro avviso, gli aspetti interessanti del film. Per prima cosa evidenziamo il coraggio di Gianni Amelio nel proporre un film sull’handicap, liberamente tratto dal libro di Giuseppe Pontiggia, “Nati due volte”. Il dolore fisico innocente è il grande protagonista dei lunghi 105 minuti di proiezione: le scene iniziali di Paolo che con andatura incerta cammina sul treno, i primi piani sui suoi occhi strabici, il suo stentato parlare, le sedute di terapia sotto l’incalzare degli ordini in tedesco della fisioterapista, la festa dell’ospedale tra bambini ed adulti con i più diversi handicap fisici…un panorama impietoso della condizione umana, descritta fin nelle pieghe più nascoste e in genere censurate, senza sbavature sentimentali.
I dialoghi asciutti, il montaggio calmo e pacato vogliono quasi essere espressivi di uno sguardo discreto eppure lucido ed acuto, senza false consolazioni.
Ma è proprio questo, a nostro avviso, il punto carente del film, quel suo profondo mancare di reale consolazione, un film che non sa dare la misura e la vera passione che la sofferenza ha.
La sofferenza non ha mai alcun riferimento metafisico, tutto è giocato nello stretto cerchio di un determinismo cieco, una materia che cerca redenzione con le sue sole forze.
A questo punto, ci chiediamo: quanto la paternità umana può reggere tanto non senso, tanta follia, tanto crudele sofferenza?
Risulta quindi evidente il secondo file rouge di Amelio: la paternità.
Gianni si riporta a casa quel figlio abbandonato in sala parto mentre la madre moriva, ma chi e cosa darà forza a quel giovane uomo per mantenere nel tempo quello slancio di affetto e di dedizione? A cosa si aggrapperà nei momenti di più acuta follia del figlio, quando ancora ripeterà come ossessionante ritornello il suo nome e l’indirizzo?
Ci sembra manchino nel film solide ed adeguate ragioni per fondare una paternità così impegnativa e così latitante ai giorni nostri.
Ma questo suscita in noi il desiderio di fare con Amelio un ulteriore tratto di strada, fino a rinvenire insieme, se possibile, a partire da un’esperienza di grazia, un nuovo livello di realtà atto a dischiudere un ragionevole approdo di senso.
Alla fine della proiezione, uscendo da una sala semi-vuota, con un certo vuoto nell’animo per lo spettacolo di una sofferenza senza significato e di una desiderio paterno tanto velleitario quanto impossibile, abbiamo pensato che Amelio, e noi stessi in fondo, siamo come Paolo: gravemente spastici, abbandonati in tenera età…la salvezza nostra (e che ahimè il film non sa suggerire) è quella di rendercene conto e quindi cercare chi può guarirci e nello stesso tempo farci sentire figli, amati, riconosciuti, sostenuti.