La guerra di Mario
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“…tu devi imparare a fare la mamma... tu le cose mie non le capisci…”: una delle battute rivelatrici del contenuto di questo drammatico ed intenso film, pronunciate dal bambino Mario nei confronti della madre affidataria, una docente universitaria benestante che ritiene: “...la libertà, l’unica intelligenza… che un bambino non vada educato, ma accolto…” . Perciò nel tentativo di dimostrare al giudice del tribunale che lei è capace di riscattare Mario da un’infanzia segnata dalla violenza, Giulia consegna al bambino tutto quello che lui non ha mai potuto avere: una scuola dove essere istruito, una presenza affettiva che non ha mai avuto, cose che non ha mai posseduto, persino cerca di convincere Sandro, il suo compagno, a rivestire il ruolo di futuro padre. Tuttavia Mario sfugge a tutte queste buone intenzioni, non solo perché non riesce a disfarsi dei segni di un’infanzia già uccisa, ma anche perchè il suo “io” non si fa intrappolare dalla tolleranza benpensante di una borghese che ha deciso finalmente di “rischiare” qualcosa di sé nella vita. Giulia non introduce Mario alla realtà, lo asseconda, procaccia le risposte a tutti i suoi bisogni (gli compra persino un serpente), è connivente con lui , cioè è al suo fianco, non sta davanti o dietro di lui come guida, modello autorevole, capace di spalancarlo ad ipotesi di valore che gli facciano intravedere e vivere una modalità di vita e di approccio al reale che non siano quello dell’istinto. La conseguenza? Quello che spesso Mario ripete “...io non ti appartengo...”. Perciò è meglio, alla fine, che Mario le venga tolto e affidato ad una famiglia vera; non è mai l’individuo, per quanto accogliente, che educa; solo una compagnia, appassionata veramente al tuo destino, un’amicizia di volti adulti che si vogliono bene, possono consegnare un bene, in quanto, laddove il singolo non ce la fa, l’altro fa incontrare, al figlio o al discepolo, una paternità o una maternità di cui lui si sente veramente di far parte.
Mario attraversa il semaforo con il rosso perché nella sua fantasia ha un modello di eroe del fumetto invulnerabile e pensa che Mimmo, il cagnolino a cui è affezionato, possa fare altrettanto, fino a quando si accorge che la realtà può essere più forte della fantasia, perché un’auto uccide il cane. Mario fa il mendicante sulla strada con un compagno; stringe amicizia con una zingarella ad un incrocio, dipinge di rosso le pareti della scuola, preferisce stare con i coetanei dei quartieri popolari di Napoli da dove proviene. Perché? Perché il bambino è uno di loro: è come l’usignolo accecato in gabbia che il vecchio gli mostra dicendogli che è stato privato della vista per gorgheggiare meglio. Mario è capace di suonare il pianoforte senza avere studiato musica e di essere anche affettuoso nei confronti di Giulia; il fatto è che Mario non è stato educato al bello, al vero, al giusto, al bene, ma solo a prendere istintivamente tutto quello che la realtà gli presenta perché egli non ha avuto genitori (ma solo una madre naturale che lo lasciava sul balcone e lo nutriva con patatine) e quella che vorrebbe essere una madre è un’intellettuale mossa da buoni sentimenti. C’è un’immagine rivelatrice di quello che l’infanzia del bambino ha subito: Giulia su Internet, ad un certo punto del film, inquadra un’immagine del celebre dipinto di Caravaggio “ Il martirio di San Lorenzo” e clicca su un particolare del volto di uno dei carnefici: esso ha il volto feroce di un ragazzino.
Giulia avrà un bambino, perché si ritrova incinta, e sua madre le dice che l’averlo non è questione di capacità o di ereditarietà positiva, ma solo di coraggio. Il film si chiude sullo sguardo di Mario che dalla finestra della casa della sua nuova famiglia vede Giulia allontanarsi; non sappiamo cosa abbia deciso la donna, ma una cosa è certa: ha imparato a fare la madre. Un vero peccato che questo film sia stato osannato dalla critica ma ignorato dal pubblico, perché è un’opera che interroga gli adulti su uno dei mestieri più affascinanti e rischiosi di questo mondo: quello dell’educare.