Centochiodi
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Non è il film migliore di Ermanno Olmi, certo è il film che ha fatto più discutere, dividendo pubblico e critica in due fazioni opposte, i detrattori e gli entusiasti. Di sicuro Centochiodi non è un capolavoro, anche solo considerando l’aspetto meramente cinematografico: la prima parte - quella del giallo dell’ “inchiodatore di libri”, sembra uno dei peggiori thriller di Dario Argento, con una recitazione così così, una messinscena piuttosto sciatta e una colonna sonora degna di un film di serie B. Meglio, molto meglio la parte centrale sul Po, fotografato in maniera splendida, e abitato da quelle figure di popolo semplice che Olmi ha sempre raccontato in parecchi dei suoi film prima e anche dopo L’albero degli zoccoli. In effetti Centochiodi ha tanti punti di contatto con l’epopea contadina del film del 1978: percorso da una nostalgia verso un mondo cristiano e semplice e contadino che non c’è più, come era sul viale del tramonto il mondo delle cascine bergamasche, Centochiodi è tutto giocato, come l’altro grande film di Olmi, Il mestiere delle armi, dentro l’opposizione tra la violenza della modernità e la bellezza, anche naturalistica, di un mondo premoderno e semplice. Una modernità crudele e folle, ora rappresentata con accenti grotteschi (il rettore motociclista), ora con toni crudeli (le motocross sull’argine), ora con tonalità malinconiche (i pesci che “sorridevano”, spazzati via dai siluri) contro una Natura (la bellezza del Po e della vita sugli argini in generale) che Olmi contempla con struggimento e nostalgia. In mezzo, sospesi nel tempo e nello spazio, un gruppo di pescatori che vivono da emarginati ai margini delle città, sulle rive del grande fiume. E’ il sottoproletariato, per usare un termine tanto caro a Pasolini a cui per trovare persone semplici, alle prese con i bisogni primari dell’esistenza, bastava andare con la macchina da presa nella periferia di Roma. I nuovi “borgatari” del Duemila sono diventati vecchi e sono i vecchi pescatori di Olmi: vecchi perché quel mondo cristiano e semplice è quasi del tutto scomparso, affidato al racconto nostalgico del più giovane di questi vecchi Apostoli (non a caso un postino). Giovane e preferito dal “professorino”: si avverte un’eco dell’evangelista Giovanni. D’altro canto, sono tanti e voluti i riferimenti cinematografici e letterari al mondo cristiano evocato da Olmi: dalla sequenze sull’acqua che rimandano al cinema di Tarkovskij al forte ed evidente impianto cristologico del film: la grotta il cui architrave fa da croce nel cielo; la casa decrepita ricostruita dalla comunità a partire da una pietra angolare intatta; l’acqua e il fuoco; i Dodici e l’Ultima Cena; il pane di vita e il vino; il tradimento biblico (la donna che, dopo le prime persecuzioni del Potere, cerca di convincere il marito ad abbandonare il “professorino” che aveva voluto e scritto la petizione), la sequenza dell’orto degli ulivi. Molti anche gli echi evangelici: dalla parabola del Figliol Prodigo (che però, significativamente, non torna al Padre) alla richiesta da parte di uno dei Dodici di far parlare il professorino perché “lui ha le parole giuste”, che tanto assomiglia al “tu solo hai parole di vita eterna” rivolto da San Pietro di fronte a Gesù, all’esclamazione nell’orto degli ulivi di uno dei Dodici (“Ma lui non ha fatto nulla di male”), alle persecuzioni di un Potere che assume ora la faccia incolore di un esattore (altra figura evangelica), ora l’espressione dubbiosa di chi non capisce chi di un maresciallo dei carabinieri, novello Pilato.
Un film, quindi, come è facile intuire, molto denso, che cerca di rievocare un mondo che non c’è più (o che ancora esiste, ma relegato ai margini), fatto di campane, balere, traghetti arrugginiti, paesini dove tutti si conoscono, pane fresco consegnato in motorino e ragazze pratiche e senza peli sulla lingua. Un mondo perduto dove compare senza preavviso un uomo che tutti chiamano Cristo, capace di suscitare un’attesa non per un discorso preconfezionato o per degli ideali sbandierati, ma per la sua presenza carnale, per il suo modo di accogliere in casa propria i derelitti, per il suo modo di ballare non proprio perfetto, per la sua calda amicizia. Insomma: un amico che ama il buon vino, le donne e la compagnia degli uomini. Un uomo che assomiglia a Cristo perché parla come lui, fisicamente gli assomiglia, ha persino la carta d’identità giusta (Raz Degan è israeliano). Un uomo, pronto a un sacrifico gratuito (anche se reso male nel film, attraverso la sequenza della carta di credito, ai limiti del grottesco). Un uomo che si consegna al Potere, in nome di un’amicizia e non di una “vita di carta”. Un uomo slegato da una Chiesa che ormai è diventata depositaria di una fede fatta di carta, rinchiusa da anni all’interno di biblioteche e incapace di far compagnia veramente all’uomo. Un uomo che promette ma sembra non mantenere nulla se è vero, come racconta nel finale, l’Apostolo più giovane che “non tornò mai più”, nonostante fosse stato visto sugli argini del Po da dei bambini. E’ questo, più delle tante imperfezioni che si ritrovano nel film, più dei facili simbolismi e di una certa nostalgia sentimentale che pur non manca, ciò che obiettiamo a Olmi: quello di aver cercato di raccontare, con accenti poetici l’amicizia con Cristo togliendo, paradossalmente, la condizione necessaria perché quest’amicizia potesse ancora oggi continuare: la sua Morte e la sua Resurrezione.