Il regista di matrimoni
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Il problema è che non si capisce nulla o quasi. Un regista affermato assiste al matrimonio-farsa della figlia, tra gli osanna del popolo cattolico in festa. La prende un po' male e si ributta nel lavoro, la regia di un classico, I promessi sposi. Dopo una serie di provini, quanto meno ambigui (c'è anche spazio per quello che viene definito un pompino preventivo), scappa in Sicilia per sfuggire (forse) a una denuncia di violenza carnale. Lì trova sulla spiaggia (forse) il fantasma di un suo collega regista morto (forse) poco tempo prima e futuro vincitore del David di Donatello. Si reca poi (forse) in un castello (forse) diroccato (forse) incantato dove si imbatte (forse) in un paio di cani con cui intrattiene una conversazione in tedesco. Dietro suggerimento dei due mastini, trova (forse) una bella principessa che (forse) di lì a poco si sposerà con un uomo che non ama. Ma il nostro eroe la salva. Forse. Appunto: forse. Bellocchio, una vita e un cinema attaccati a dei forse che non portano da nessuna parte (chi ha ucciso Moro? Forse è ancora vivo), concepisce un film d'Autore secondo l'accezione peggiore. E cioè: cerebrale, ingarbugliato, verboso, confuso e narrativamente duro da digerire. E ovviamente più snob che mai (il protagonista, alter ego del regista, è ogni due per tre chiamato Maestro). L'intento di Bellocchio è quello di scavare oltre il formalismo e il perbenismo. Legittimo. Non sarà né il primo né l'ultimo regista a prendersela con il matrimonio, tanto più se di convenienza. E del resto, non si può dire nemmeno che Il regista di matrimoni sia un film anticlericale, fatta eccezione per la prima sequenza. E' semplicemente un film velleitario: vorrebbe essere il nuovo Gattopardo, il film sulla decadenza del Meridione come immagine dell'Italia intera in crisi di identità e di moralità. E invece è un film sentenzioso che mette a tema una ricerca del Sacro che appare artificiosa e mai sentita come dramma reale. La ricerca di uno scettico, di un uomo che sa già che non troverà nulla. Insomma, la buonanima di Pasolini che, al pari di Visconti, è ampiamente citato nel film, appare lontana mille miglia rispetto a un film indecifrabile ed elitario. Il Bellocchio che, quarant'anni fa scardinava la famiglia con il suo rancoroso e potente esordio, I pugni in tasca, è diventato ora un Maestro affezionato al proprio piedistallo, in cerca non si bene di che cosa. Un regista scontento che mette in scena un'Italia arcana in cui non si sente più partecipe. Un'Italia che gli ha negato tutto, la cittadinanza, gli affetti e anche il David di Donatello: dalla rabbia giovane di un regista che voleva cambiare il mondo nel '68 al rancore per il David (o Leone) non concessogli: dalla rivoluzione al borghesismo. Dall'ideale, alla poltrona. E il cerchio è chiuso. E questa volta, si spera, senza forse.