Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo
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Siamo lontani da I predatori dell’arca perduta. Ma anche dai due sequel, Il tempio maledetto e L’ultima Crociata. Non manca l’ironia, l’azione, le trovate simpatiche e le citazioni colte nell’ultimo, forse definitivo, capitolo di Indiana Jones, ma il film è il meno riuscito rispetto ai film precedenti. Ford è simpatico e ha avuto sempre il raro dono dell’autoironia, elemento fondamentale per un sessantaseienne che corre e scalcia come un giovinetto ed è stato ed è tuttora il vero elemento trainante della saga. Quello che manca al film è però il resto, a partire dai personaggi di contorno sotto utilizzati. Si pensi a questo proposito al personaggio di Mac interpretato da Ray Winstone, ridotto quasi a poco più che comparsa. Ma anche il personaggio di Marion (un’inevitabilmente invecchiata, Karen Allen, classe 1951) che è meno strabordante rispetto a I predatori, così come le baruffe con l’ex fidanzato, decisamente meno godibili. E pure il bravo Shia LeBoeuf incide meno delle tante spalle che si sono avvicendate in più di venticinque anni di saga. Sul fronte degli effetti speciali, imperversa, come è ovvio, il digitale ma Spielberg, fortunatamente, ne limita l’uso, comunque ben percepibile, e non appesantisce il film dei virtuosismi visivi dell’ultimo Lucas (quello dei deludenti prequel di Star Wars). Nonostante i tanti e apprezzabili sforzi nostalgici (le linee rosse sulle cartine geografiche; i titoli di testa) Spielberg non riesce a restituire al film quel gusto così artigianale e unico di un tempo. Deludenti anche i cattivi, Dovchenko
(Igor Jijikine) e soprattutto Irina Spalko (Cate Blanchett), poco più che maschere. In definitiva, un discreto sequel, con un paio di sequenze decisamente riuscite (La sequenza iniziale; il test nucleare nella città fantasma), una bell’inseguimento anticomunista, con tanto di slogan in rima (Better Dead than Red) per un film che mette tanta nostalgia e che sembra un’invecchiata, a tratti godibile, rimpatriata.