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Io non sono qui

Regia:
Todd Haynes
Cast:
Cate Blacnhett, Cristian Bale
Le tante vite e storie di Bob Dylan rievocate attraverso le vicende di sei personaggi.
Voto: 5,0

Vincitore all’ultima Mostra di Venezia di due premi (Gran Premio della Giuria e Coppa Volpi a Cate Blanchett), il film di Haynes (Lontano dal Paradiso) è un tentativo non riuscito di interpretare una figura magmatica e contraddittoria. Prendendo le distanze sia dal biopic tradizionale, che dal punto di vista strettamente musicale sta avendo un certo successo nel cinema degli ultimi anni (si pensi alle biografie recenti su Ray Charles o su Johnny Cash), ma rigettando anche la strada della pura fiction, come nel suo precedente e più riuscito Velvet Goldmine, Haynes tenta l’operazione più difficile, cioè quella dell’interpretazione di un personaggio, tra l’altro ancora vivente. Per far questo costruisce un film a macchia di leopardo con protagonisti sei personaggi diversi, alcuni dei quali veri e propri alter ego dell’artista (Cate Blanchett, alle prese con un’interpretazione mimetica o Christian Bale, straordinario nella mimesi della voce di Dylan, almeno in lingua originale). Altri personaggi, come quello interpretato da Richard Gere, sono personaggi di alcuni album e canzoni; altri ancora, come il ragazzino di colore chiamato Woody Guthrie sono evidentemente un’ispirazione. In mezzo a tutto questo una storia: che in parte è la storia del cantante (la separazione dalla moglie interpretata da Charlotte Gainsbourg), in parte è la storia di alcuni personaggi di sue canzoni che tra l’altro parlano o con versi delle sue canzoni o con le note di alcuni suoi dischi. Facile capire che per chi non è fan sfrenato di Dylan la faccenda è maledettamente complicata e il film appare ermetico, quando non addirittura incomprensibile. L’operazione di Haynes appare insomma cerebrale ed elitaria, non certo per il grande pubblico che si trova di fronte sia da un punto di vista narrativo sia dal punto di vista della resa dei personaggi a un film sfuggente di non facile decifrazione. A tutto ciò si aggiungano anche le tesi personali non sempre condivisibili del regista sulla discografia di Dylan, che ad esempio appare come un santone pazzo nella sequenza che rievoca la conversione del cantante al cristianesimo negli anni ‘70, dimenticando che fu proprio la conversione a regalare al pubblico alcuni degli album più belli.

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