Minority Report
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Chi sono io? E’ questa la domanda che sorge prepotente tra le immagini di Minority Report. Chi è John Anderton? E’ il capo dell’Unità Pre-Crimine della polizia di Washington del 2054. Ha perso il figlio in circostanze drammatiche ed ha il “dono” di prevedere possibili omicidi. Lo aiutano strani personaggi che vegetano in un’enorme vasca di lattice e che trasmettono previsioni. Il sistema sembra perfetto, almeno fino a quando lo stesso Anderton diventerà un sospetto. L’ultimo film di Spielberg è solo apparentemente l’ennesima parabola su un futuro inquietante. In realtà, è un film sulla conoscenza e sul percorso del protagonista verso di essa. Tutto centrato su immagini del “vedere” (la domanda, persistente: “Riesci a vedere?”), Minority Report attinge al mito classico per parlare di Verità. Novello Edipo, Anderton è un capo, riconosciuto da tutti, ha carisma ed il dono di decifrare gli sconnessi sogni di tre veggenti. Come Edipo, ha un destino di dolore (la perdita del figlio), e una sorta di rivalità malcelata con una specie di patrigno (Lamar –Laio). E solo alla fine di un percorso di sacrificio (culminante con un accecamento), la verità sarà svelata. Un film grande e intelligente, per colti, ma anche per il grande pubblico, simile al precedente A.I. per ambientazioni, storia, rapporti, obiettivi. Là si parlava di Destino attraverso il volto di una madre, qui si parla di Verità attraverso legami altrettanto forti e genetici (Anderton e il figlio, Agatha e la madre). Ed anche un grande omaggio al cinema di una volta: si parte dalla fredda fantascienza, dominata da effetti digitali che lasciano indifferenti, per arrivare alle emozioni. Quelle vere. Quelle scandite da sguardi, rapporti, sentimenti. Si parte dalle astronavi per arrivare alla vera bellezza. Quella dei libri, quella delle donne, quella di un figlio.