Mio fratello è figlio unico
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E’ stato lanciato come l’ultimo film di Riccardo Scamarcio e forse è anche per questo che il film sta avendo un discreto successo al botteghino. E invece è il film di Elio Germano che si conferma un attore di notevole spessore dopo le buone prove in Quo vadis, baby?, Romanzo criminale e nel recente N - Io e Napoleone. Lo dirige Daniele Luchetti, una filmografia di alti e bassi (Il portaborse; La scuola; I piccoli maestri), discepolo di Moretti con cui esordì come attore nel bellissimo Bianca e capace spesso di raccontare la Storia attraverso piccole storie umane di provincia. Era successo nello sfortunato (e un po’ velleitario) I piccoli maestri dove per raccontare la Resistenza il regista romano si concentrava nel racconto dell’amicizia di un gruppo di giovani partigiani. Ed era successo anche nel suo film finora più riuscito, quel La scuola con cui Luchetti tratteggiò con simpatia i sogni di un insegnante nella periferia di Roma. Ecco: la storia, rigorosamente con la ‘S’ minuscola, la provincia periferica, il tratteggio umano. Sono questi gli ingredienti che ritornano in Mio fratello è figlio unico con cui Luchetti torna a raccontare un pezzo di storia d’Italia, attraverso il punto di vista di due fratelli che passano tutto il tempo a darsene affettuosamente di santa ragione. Uno è fascista e l’altro è comunista ma l’adesione ideologica, almeno per Accio, il personaggio interpretato da Germano e meglio tratteggiato nel film, è soltanto un modo per trovare pace in un’inquietudine che attraversa per tutto il film il giovane. Un’inquietudine, un non darsi mai pace, che sfocia spesso in una violenza malinconica in famiglia, nella sezione del Partito, nel rapporto col fratello e con la donna che si ama e di cui si vedevano già i primi segni nella breve parentesi in seminario. Accio è il personaggio più riuscito del film (anche se non il solo: le due famiglie nel film, interpretate dalle coppie Bruschetta/Finocchiaro e Zingaretti/Bonaiuto sono ben delineate) e ci piace per questa sua domanda drammatica che ha a che fare soprattutto ma non solo con la giustizia. Perché di ingiustizie il giovane Accio ne sperimenta tante: meritarsi una promozione a pieni voti e non poter studiare latino; una situazione economica difficile; una vicenda sentimentale dolorosa, per non parlare del rapporto d’amore-odio con il fratello. Il film di Luchetti è fresco e brioso, soprattutto nella prima parte quando non sente il bisogno di spiegare a tutti i costi la Storia ma si concentra sulla vicenda di una famiglia scassata e realistica. Non cade nella trappola facile della caricatura dei fascisti, anzi demitizza l’ideologia attraverso alcune sequenze controcorrente (la “defascistizzazione” di Beethoven al Conservatorio). Un po’ meno efficace il film appare nella seconda parte, con la deriva poco spiegata cinematograficamente di Scamarcio nella lotta armata e la rivoluzione appassionata, populista e utopica di Germano. Non sono dettagli, come non è un dettaglio la discutibile scelta registica di appiccicare la macchina da presa sui volti e i corpi dei personaggi a costo di rendere caotiche e troppo “mosse” le scene d’azione; i pregi però sono tanti e anche di peso, dalla sceneggiatura solida scritta dal regista assieme a Rulli & Petraglia alla scelta felice di non soffocare nella retorica ideologicamente corretta la storia recente del nostro Paese.