Natale a New York
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Commedia degli equivoci piuttosto volgare ma - e questa è la novità del cinepanettone degli ultimi anni - senza nudi. Il format è quello consolidato: una manciata di comici navigati, una bella figliola (in questo caso Elisabetta Canalis, sempre alle prese con un cellulare Tim), un paio di ragazzi (Paolo Ruffini e Francesco Mandelli) ad accalappiare il pubblico più giovane. Anche senza Massimo Boldi e con un Christian de Sica costretto a dividere la scena con altri comici, il cinepanettone natalizio funziona, almeno dal punto di vista degli incassi. E’ sempre uguale a se stesso, le gag appaiono spesso trite e ritrite se non prese di peso da altri film (la canzone cantata da De Sica e dedicata alla moglie e all’amante) e si ridacchia a tratti, specie quando in scena c’è De Sica ma si avverte comunque professionalità ed esperienza nel cucinare il film, ma l’atmosfera che si respira è avvilente. Matrimoni di interesse, adolescenti a caccia di sesso e goliardate, padri meschini e bugiardi. Di fronte allo sfascio di un’Italietta che Neri Parenti da anni e in modo sempre più compiaciuto crede di dipingere, non ci si può trincerare dietro la spocchia di certi giornali e bollare il film e le scene più trash come “meritevole del pubblico a cui si rivolge”. La piantino una buona volta con questo moralismo da quattro soldi: Natale a New York è un film schematico che si regge sempre sulle solite maschere e che è sempre più uguale a se stesso. E non cambierà nemmeno mai, visti i risultati. Piuttosto fa riflettere che migliaia di persone, adulti, coppie, giovani, famiglie, pensionati che magari vanno al cinema una volta l’anno, consacrino le feste di Natale per vedere un film dove nulla conta nemmeno gli affetti eccezion fatta per il successo personale, per il danaro (ben rappresentato dai numerosi marchi pubblicitari presenti nel film). Che, insomma questo prodotto ben fondato su un cinismo compiaciuto sia il cinema popolare di oggi, senza troppi moralismi, dobbiamo prenderne atto. E soprattutto senza prendersela con il pubblico, con “la massa” quella strana informe creatura riottosa a farsi incasellare dentro gli schemi cinefili dei Dottori del Cinema, più pronti a condannare che ad osservare. Il pubblico non va condannato né indottrinato. Le persone vanno educate. E forse la svolta sta proprio lì in quella “educazione del popolo” che è stata ben sintetizzata attraverso l’appello Se ci fosse un’educazione del popolo, tutti starebbero meglio: “È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta. È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere. Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti”. Occorrono maestri, conclude l’appello. E noi aggiungiamo: anche al cinema. E’ compito di tutti: addetti ai lavori, giornalisti, esercenti, animatori di cineforum e rassegne, insegnanti, padri e madri di famiglia.